Bocche cucite tra i parlamentari del Pd. La dichiarazione choc di Stefano Bonaccini, "Renzi e Bersani rientrino pure", ha destato non pochi malumori dentro il partito, ma l’ordine di scuderia è stato chiaro: ora pensiamo alle Regionali.
Il governatore dell’Emilia-Romagna, con quelle parole provocatorie pronunciate durante una serata della festa dell’Unità, sembra aver lanciato un messaggio chiaro: “Se perdiamo, io ci sono”. Bonaccini ha scelto proprio “la sua Modena”, dove negli anni ’90 ha iniziato la sua carriera di amministratore locale, per lanciare la sua scalata ai vertici nazionali del partito. Nel 2009 diventa segretario regionale del Pd “in quota Bersani” e rimane bersaniano fino al 2013, anno in cui sale sul carro del vincitore di Matteo Renzi. Il cambio di casacca “interno” gli vale la candidatura a presidente della Regione Emilia-Romagna, dopo che il governatore uscente, Vasco Errani, si era dimesso a seguito della condanna in primo grado nell’indagine ‘Terre Emerse’ (poi assolto nel 2016). Bonaccini vince quelle elezioni con il 49% e con 20 di distacco dall’attuale sindaco di Ferrara, Alan Fabbri, che all’epoca era consigliere della Lega in Regione. È tra i sostenitori del segretario Nicola Zingaretti quando, cinque anni dopo, batte di sette punti percentuali la candidata leghista Lucia Borgonzoni in un momento in cui il Carroccio sembrava invincibile.
“In questo momento Bonaccini è uno dei pochi vincenti, proprio come lo era Zingaretti fino a un minuto prima di diventare segretario”, ci fa notare un esponente locale del partito che aggiunge: “Non dimentichiamo che Zingaretti vinse nel Lazio proprio nello stesso giorno delle Politiche in cui il Pd, a livello nazionale, prendeva la più gande batosta della sua storia”. È, quindi, logico che, ora, Bonaccini voglia presentarsi come colui che non considera la vittoria un peccato o una colpa, ma anzi come l’uomo più adatto per riunire le varie anime della sinistra. “A gennaio è riuscito a essere il più inclusivo possibile”, aggiunge la nostra fonte che ci ricorda come all’interno della sua lista vi fossero alcuni esponenti renziani, mentre Carlo Calenda lo sosteneva apertamente con la candidatura di Mara Mucci, mentre le sardine appoggiavano l’ex europarlamentare Elly Schlein. Proprio quest’ultima è, poi, divenuta la sua vice. “Bonaccini non ha fatto alcun miracolo, non è il salvatore di nessuna patria. Ha soltanto vinto in una regione tradizionalmente rossa dove doveva vincere”, spiega il politologo Gianfranco Pasquino, convinto che, in caso di sconfitta, Zingaretti non sia tenuto a dimettersi e che, quindi, l’unico modo per scalzarlo sia una richiesta formale delle primarie. “L’attuale segretario non ha colpe di come sono state governate o di come il Pd ha fatto l’opposizione in quelle Regioni”, chiarisce Pasquino che relega l’apertura a Renzi e Bersani al ruolo di “semplice battuta giornalista”.
La sensazione è che, sebbene la paura di una sconfitta in Toscana sia molto forte, nessun capo-corrente abbia al momento l’interesse a far fuori un altro segretario, il secondo nel giro di due anni. “Poi non è detto che chi governa bene un territorio sappia anche gestire bene un partito che, per certi versi, è un’impresa ancor più difficile”, fanno notare in casa dem. In sintesi, Bonaccini potrebbe anche recuperare qualche voto dalla parte sinistra, togliendo consensi a LeU, eppure non riuscirebbe a portare il Pd oltre il 25%. “Ma nessun altro ci riuscirebbe”, commentano i democratici emiliani che lo conoscono bene. Bonaccini è sicuramente meno pavido di Zingaretti, l’anima da federatore ce l’ha e, finora, è riuscito a includere di più, ma un fuoriuscito dal Pd ci assicura che non ritornerà: “Sono uscito per Zingaretti, non rientro per Bonaccini”. “Rientro? Dipende dal progetto. Non è un problema di persone, ma di progetto”, commenta il deputato renziano Michele Anzaldi. “Noi siamo andati via dopo aver fatto ‘il lavoro sporco’ di dar vita al governo giallorosso. Siamo usciti quando c’era da stare comodi, mentre sulle nostre idee continuavano a dirci: ‘State zitti e basta’ e allora ce ne siamo andati”, conclude Anzaldi, respingendo di fatto l’invito di Bonaccini.
Pierluigi Bersani, invece, dalla Festa nazionale di Articolo Uno a Ravenna, chiarisce: “Non c'è bisogno di rivangare niente, guardiamo le cose che abbiamo davanti, e sarebbe possibilissimo mettere in campo una prospettiva politica che magari non è un nuovo partito ma una cosa che è in po’ più di alleanza e un po’ meno di un partito e lì trovi anche il tema del campo progressista e ti rivolgi ai 5 Stelle. Altrimenti sono chiacchiere inutili".
Almeno per il momento, dunque, sembra non essere andato in porto il primo tentativo di Bonaccini di rispolverare la ‘vocazione maggioritaria’ di veltroniana memoria, mentre Zingaretti deve guardarsi le spalle dal nuovo ‘fuoco amico’.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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