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Il boomerang di D'Alema: le porte del Pd si chiudono

Con le sue sparate l'ex leader ostacola i piani dei Dem e di Leu. Fioroni: niente revanscismi

Il boomerang di D'Alema: le porte del Pd si chiudono

Non è ancora rientrato nel Pd, ma la querida presencia del comandante Max D'Alema già fa sentire i suoi effetti sul partito guidato da Enrico Letta. Il segretario s'era inventato la piattaforma delle «agorà democratiche» proprio per permettere il ritorno al porto d'origine dei transfughi targati Leu e Articolo 1. Un'operazione lasciata passare dal partito, nonostante renziani e centristi dem non avessero troppo gradito, e il rientro della «Ditta» nel Pd era praticamente cosa fatta. Poi ecco che a Capodanno D'Alema si dedica alla didattica a distanza per spiegare agli allievi del Nazareno di quale grave malattia avevano sofferto, e alla diagnosi di «renzismo», il barchino dei transfughi con D'Alema improvvisatosi timoniere, manco fosse tornato su Ikarus, si è ritrovato insabbiato sulla via del ritorno a casa. Prima travolto dalle critiche dello stesso Renzi, poi da quelle dell'ala riformista del Pd e infine gelato anche da Letta, irritato per l'uscita sguaiata di Baffino e pronto a difendere pure gli anni a guida renziana del Partito democratico. Una mossa decisa e poco diplomatica, che ha stupito pure - piacevolmente - l'area moderata del partito. Così quel passo del gambero degli ex compagni verso la casa madre ha subito un'inaspettata battuta d'arresto, confermata dalle dichiarazioni del day after, con il Pd che si stringe intorno al segretario per aver «chiuso» con durezza il caso D'Alema e Articolo Uno che, come ricorda Arturo Scotto, temporeggia e rinvia la questione dello «sbarco» nel Pd alla primavera, quando finiranno le agorà. E quando, si spera, le acque saranno tornate calme. Adesso non lo sono ancora. Andrea Marcucci arriva a chiedere un congresso anticipato. E Beppe Fioroni avverte: «Se la logica delle Agorà fosse questa», ovvero un ritorno al passato, «la scommessa di Letta sarebbe inficiata dal revanscismo degli esuli».

Ma il buon D'Alema ha messo in moto un effetto anche nella delicata partita del Quirinale. Proprio mentre si profila un nuovo vertice, dopo quello di Natale, per stoppare le uscite in ordine sparso tra dem, pentastellati e sinistra, e mettere a punto un percorso comune sul dossier Colle tra Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, a complicare la quadra arriva la sparata di D'Alema, che ha criticato l'autocandidatura di Draghi bollandolo come mera espressione del «potere della grande finanza internazionale». Ma forse il «sabotaggio» dalemiano potrebbe avere come conseguenza un effetto opposto a quello desiderato da Baffino. E il suo astio verso il premier avrebbe in effetti già fatto compattare intorno al nome di Draghi un buon numero di grandi elettori progressisti nell'area centrista. Tra i riformisti del Pd ora si ironizza sulla capacità di D'Alema di orientare - ma al contrario - le elezioni del capo dello Stato: nel 2006, con la mancata convergenza sulla sua candidatura che portò al Quirinale Giorgio Napolitano; nel 2013, quando Baffino appoggiava Marini, battuto ancora dal secondo mandato di Napolitano; e infine nel 2015, con il supposto tentativo rivelato da Renzi anni dopo - di chiudere un accordo con il centrodestra sul nome di Giuliano Amato, che finì per innescare l'elezione di Sergio Mattarella. Ora i sostenitori dell'ipotesi Draghi sperano che l'intervento a gamba tesa di Baffino confermi la tendenza dell'ex premier a sbagliare candidato.

Di certo, l'incertezza nel Pd è ancora tanta: un centinaio dei suoi grandi elettori avrebbe cominciato a caldeggiare l'ipotesi, già tra le opzioni di Letta, di traslocare SuperMario da Palazzo Chigi al Quirinale.

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