Cosa vuoi di più dalla vita? Un lucano. E infatti questa è una vicenda «amara» che - di lucanità - abbonda. Lucano (precisamente di Venosa, patria di Orazio, il poeta del Carpe Diem) è il direttore generale della Soprintendenza di Pompei, professor Massimo Osanna; lucana è la borchia del VI a.C. (proveniente dal Museo archeologico «Dinu Adamesteanu» di Potenza) rubata ieri mentre era in mostra negli scavi più affascinanti del mondo; e lucana - in un certo senso - è anche l'atmosfera di tragicomica superstizione che ammanta l'ultimo (almeno, si spera) «colpo» avvenuto all'ombra della città incenerita.
Lapilli di vesuviana memoria pronti ora a fulminare l'ignoto trafugatore di borchia, certo non al corrente della «maledizione» destinata ad abbattersi su di lui, la sua famiglia e sui suoi discendenti fino alle prossime tre generazioni. A meno che...
A meno che non venga restituito il maltolto (assicurato per 300 miseri euro, ma - pare - dal «valore storico inestimabile»). Noi lo diciamo nel suo stesso interesse: caro ladruncolo, pentiti e rispedisci subito la borchia - più o meno «preziosa» - all'illustre professor Osanna. Altrimenti saranno guai. Come sanno bene le decine di turisti - ribattezzati «furbetti delle scavetto» - che in passato pensarono bene di concludere la visita a Pompei «grattando» un piccolo souvenir, poi sapientemente occultato in borsa.
Peccato che da allora la loro vita sia diventata un inferno, tra disgrazie a non finire; i poveretti ignoravano infatti che sottrarre i reperti pompeiani porta male e che la sfortuna ad essi collegati può arrestarsi solo riportando alla base l'oggetto dolosamente sgraffignato.
Esattamente come fatto nel corso degli anni da centinaia di turisti macchiatisi della medesima colpa: rubare dagli scavi un «ricordino» illudendosi di sfuggire alla maledizione. Che invece arriva. Sempre. Sotto forma di un'implacabile sfiga. Si spiega così la saggia decisione di rispedire all'indirizzo della «Direttore generale della Soprintendenza di Pompei» decine di pacchetti contenenti reperti di varia natura, ma accomunati da un'unica caratteristica: essere stati appunto trafugati durante le visite turistiche. Una forma di rimorso a sfondo archeologico-jettatorio che spinse il professor Massimo Osanna a ideare addirittura una mostra dal titolo «Quello che mi porto via da Pompei». Il tutto corredato da lettere di scuse, supplicanti la benevola fine della «maledizione». Tanti gli esempi: come quello di un turista spagnolo che aveva trafugato un pezzo di intonaco decorato, e che ha restituito il bottino mettendo nero su bianco come quel furto compiuto in una gita culturale fosse stato «foriero di disavventure e disgrazie patite da lui e dalla sua famiglia». Idem per una signora inglese che nel 2015 inviò un pezzo di mosaico rubato negli anni '70 dai suoi genitori: «Vi restituisco quanto prelevai indebitamente nel 1983 e che mi ha portato solo disgrazie. Ora mi sento libera».
Mentre «liberi» (almeno dal sospetto) non si sentono affatto i sindacati che tutelano il «buon nome» dei custodi di Pompei. Categoria perennemente in rotta di collisione col professor Osanna, anche quando quest'ultimo - come nel caso del furto della borchia «lucana» - non li ha accusati di nulla. Ma è bastata qualche innocua frasetta del direttore per scatenare Cgil, Cisl, Uil, Unsa e Flp: «Assistiamo all'ennesimo tentativo di gettare ombre sul personale di vigilanza. Evitando di ricordare che il sistema videosorveglianza non copre l'intera area del parco».
È la riprova di come tra Osanna e sindacati il dialogo resti difficile. Ma questa è un'altra storia.
Anzi, un'altra «maledizione».
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