«Sono straconvinto che l'Italia con una propria moneta risolverebbe gran parte dei propri problemi». Basta riproporre una convinzione nota perfino ai sassi, come quella espressa ieri dall'onorevole della Lega, Claudio Borghi, per far salire la febbre dello spread oltre i 300 punti e far scendere l'euro sotto gli 1,16 dollari? A giudicare dalla reazione dei mercati, sì. La manifesta nostalgia della lira non è mai piaciuta agli investitori: ha il suono aspro di una picconata tirata all'euro. Piace ancor meno, in questi giorni di stralunate o inopportune dichiarazioni che rimbalzano da Roma a Bruxelles e da Buxelles a Roma nell'ambito della disputa sull'impianto di una manovra di cui nessuno, finora, ha letto il contenuto. Poi lo stesso Borghi può anche precisare che l'Italexit «non è nel contratto di governo»; e può il premier Giuseppe Conte provare a mettere una pezza dicendo che «l'euro è la nostra moneta ed è per noi irrinunciabile», ma il risultato non cambia. Alla fine, ci si ritrova a fare i conti con un differenziale tra Btp e Bund tedesco a quota 301, 18 punti in più di lunedì; un rendimento decennale salito al 3,44% contro il 3,30% della chiusura precedente; e con tassi sulla scadenza a 2 anni all'1,46% (era all'1,17% ieri). Né conforta il fatto che Piazza Affari abbia limitato i danni (-0,23% il Ftse Mib) dopo uno scivolone durante la seduta del 2%, ai minimi da 17 mesi: nelle ultime tre sedute la capitalizzazione è scesa di oltre 30 miliardi e le banche, gonfie di titoli di Stato, restano ostaggio dello spread (-1,17% l'indice di categoria).
La tensione rimane dunque ai livelli di guardia. E non potrebbe essere altrimenti in giorni come questi in cui sono saltate le più normali regole di comunicazione e rottamata la prudenza della diplomazia. Così, per un Jean-Claude Juncker che equipara l'Italia alla Grecia, c'è un Matteo Salvini che dà dell'ubriaco al capo della Commissione Ue: «Parlo con persone sobrie che non fanno paragoni che non stanno né in cielo né in terra». È questa continua contrapposizione dialettica con toni da Bar dello sport (o, più modernamente, da Twitter), unita all'incertezza che grava sulla manovra, ad accentuare l'insicurezza dei mercati. Gli stessi mercati che poi si ritrovano tra le mani un rapporto di Goldman Sachs dedicato all'Italia. Ed è un'analisi che solleva dubbi sulla sostenibilità a lungo termine del nostro debito proprio a causa della programmata politica in deficit spending. Aumentare il disavanzo significa anche erodere l'avanzo primario (il saldo tra entrate e uscite, al netto della spesa per interessi), e con ciò, ammonisce Goldman, impattare sulla crescita e accrescere la vulnerabilità del Paese agli choc di mercato. Non a caso, ricorda il report, l'Ufficio parlamentare di bilancio ha reso noto che negli ultimi otto anni l'avanzo primario del governo ha contribuito a tagliare complessivamente il rapporto debito-Pil di circa 11,5 punti percentuali. Inoltre, il maggior deficit va a innestarsi all'interno di un ciclo economico in rallentamento nell'eurozona e nel momento di cui la Bce si appresta a mandare sul binario morto il quatitative easing. Per l'Italia è un problema: dal marzo 2015, data di avvio del Qe, l'istituto guidato da Mario Draghi ha acquistato nostri bond sovrani per 360 miliardi di euro. La banca d'affari Usa stima che Francoforte ne comprerà per altri 5,5 miliardi nell'ultimo trimestre di quest'anno.
Ma a partire dall'anno prossimo, quando sarà attivo il solo reinvestimento del portafoglio titoli, lo shopping si ridurrà a 3-3,5 miliardi al mese. Con acquisti a scartamento ridotto, sarà lo spread a soffrirne. Goldman non esclude una forbice Btp-Bund stabilmente sopra i 300 punti, con la Bce che potrebbe ritardare la fine del Qe prevista per fine dicembre.
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