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Una borsa carica di veleni. Il caso Borsellino tocca Ayala

Nella sentenza sul depistaggio i giudici accusano l'ex pm: "Troppe e inspiegabili le sue contraddizioni"

Una borsa carica di veleni. Il caso Borsellino tocca Ayala

«Io continuo ad avere un grande rispetto per i colleghi, ma sono davvero amareggiato per quello che scrivono nelle motivazioni della sentenza. Io, in quel momento, mi ero appena imbattuto nel cadavere del mio amico Paolo, che era senza gambe e senza braccia. Ho fatto fatica a riconoscerlo. E c'era questa storia della borsa, ovviamente chiusa. Io ignoravo il contenuto della borsa e mi sono confuso. A distanza di anni. Dopo 15 anni, 20 anni».

Giuseppe Ayala era amico di Paolo Borsellino, fu lui a sostenere l'accusa nel maxiprocesso a Cosa Nostra istruito dall'amico e da Giovanni Falcone. Oggi, a trent'anni dall'assassinio del magistrato e della sua scorta, a Ayala tocca difendersi. Da altri magistrati, quelli che hanno condotto il processo per il depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio, Ayala si vede accusare di avere cambiato troppo spesso le sue versioni su quanto vide in quella terribile domenica di luglio.

Il processo sul depistaggio si è concluso senza condanne. Sul banco degli imputati c'erano solo tre pesci piccoli, tre poliziotti dell'epoca. Uno è stato assolto, due prosciolti per prescrizione. Ma i giudici del tribunale di Caltanissetta non si fermano lì. Nelle chilometriche motivazioni della loro sentenza (1.700 pagine) per spiegare il depistaggio - che indubbiamente vi fu, e fu grave - scavano e ipotizzano sui suoi motivi, su cosa vi fosse da coprire a tutti i costi. La conclusione è netta: le testimonianze e i documenti approdati in aula danno «concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D'Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all'eliminazione di Paolo Borsellino».

«Soggetti istituzionali», si spingono a scrivere i giudici. Gli elementi a sostegno della tesi non sono numerosi. Un pentito, Gaspare Spatuzza, che dice che in via D'Amelio c'era anche un signor X esterno a Cosa Nostra: e «la presenza anomala e misteriosa di un soggetto estraneo a Cosa nostra si spiega solo alla luce dell'appartenenza istituzionale del soggetto». Poi c'è l'anomalia del breve intervallo tra la strage di Capaci e l'agguato a Borsellino, che per i giudici contrasta con l'abituale cautela di Cosa Nostra. E infine c'è la storia della borsa di Borsellino, presa da chissà chi e rimasta a lungo in un ufficio: dentro forse c'era la famosa agenda rossa del magistrato, svanita nel nulla.

Per teorizzare il livello «eccellente» dell'uccisione di Borsellino la sentenza di Caltanissetta mette nel mirino diversi che nel frattempo sono morti: l'ex procuratore. Giammanco; l'allora capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (cui almeno concedono che depistò l'inchiesta, col falso pentito Vincenzo Scarantino, non per aiutare Cosa Nostra ma solo per fare carriera); il capo di allora della polizia Vincenzo Parisi, che avrebbe permesso al Sisde di partecipare alle indagini, grazie a un «avallo istituzionale che non poteva che provenire dall'organo di vertice politico dell'epoca». Ministro dell'interno era il dc Nicola Mancino.

Poi ci sono però le accuse ai vivi. Non, curiosamente, ai magistrati della Procura che (con due sole eccezioni) a quel depistaggio credettero senza obiezioni: ma ad Ayala, che del gruppo inquirente non faceva parte, anche perché nel frattempo era divenuto deputato. Fu tra i primi ad arrivare in via d'Amelio. Sulla borsa e l'agenda di Borsellino è stato interrogato più volte, dando versioni diverse: ha detto di aver preso lui la borsa, ma anche di averla vista prelevare da un uomo in borghese, o (terza versione) da un ufficiale in divisa. «Pur comprendendone lo stato emotivo profondamente alterato appare inspiegabile il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda», si legge nella sentenza di Caltanissetta.

Ayala replica amaro, in una dichiarazione all'Adnkronos: «I colleghi non tengono conto delle condizioni in cui mi trovavo in quel momento della mia vita, personale e professionale, del grande legame che notoriamente mi univa a tutti i membri del pool, lo sanno tutti, ma come si fa a dubitare? Un po' di prudenza andrebbe suggerita ai magistrati».

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