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Il boss "contemporaneo" che archiviò i Corleonesi (provando a beffare lo Stato)

Gli sarebbe piaciuto morire come suo padre Ciccio: da latitante, con la soddisfazione di avere beffato lo Stato fino all'ultimo

Il boss "contemporaneo" che archiviò i Corleonesi (provando a beffare lo Stato)

Gli sarebbe piaciuto morire come suo padre Ciccio: da latitante, con la soddisfazione di avere beffato lo Stato fino all'ultimo, e farsi ritrovare come suo padre vestito di tutto punto, in un campo, già pronto per essere infilato nella bara. Il destino ha deciso diversamente, Matteo Messina Denaro chiude gli occhi per sempre in una stanza di ospedale circondata da secondini. La trappola non gliel'hanno allestita nè le Procure né le migliaia di sbirri che gli davano invano la caccia, ma un fetido, banale, tumore al colon: era stato il tumore a costringerlo ad arrendersi, è stato il tumore ad ammazzarlo, a nove mesi di distanza dal giorno in cui, in una Palermo schiaffeggiata dalla pioggia, un capitano dei Gis lo aveva prima chiamato per nome e poi preso sottobraccio, davanti alla clinica La Maddalena. Suo padre, don Ciccio Messina Denaro, morì da latitante nel 1998. Invece per Matteo il «fine pena» arriva in un reparto ospedaliero di massima sicurezza, quello dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila. Come Salvatore Riina a Parma, come Bernardo Provenzano a Milano.

Le simiglianze si fermano qui. Riina tra l'arresto e la morte restò sepolto ventiquattro anni al 41 bis. Il suo successore, Provenzano, dieci anni, ridotto a una larva demente. A Messina Denaro il conto finale che la legge e la sorte presentano è di soli nove mesi. Il tempo di una gravidanza, tanto è durato il carcere dell'ultimo padrino. Certo è stato ergastolo, è stato carcere a vita. Ma un ergastolo assai corto, una sanzione modesta a fronte dei reati tremendi e delle sentenze piovute, una dopo l'altra, sul padrino di Castelvetrano. Gli avevano inflitto ergastoli su ergastoli, come se avesse da spendere in gabbia chissà quante vite, e non una manciata di settimane.

Lui lo sapeva, che alla fine se la sarebbe cavata con poco. Il 16 gennaio aveva accettato le manette, il rito delle foto segnaletiche, la sfilata in favore di telecamere, quasi col sorriso sulle labbra, come a dire: ho altri problemi, io, che le vostre manette. Un sorriso beffardo se l'è portato addosso fin dentro le celle di massima sicurezza dell'Aquila, dove ogni tanto i giudici lo raggiungevano per interrogarlo. Lui non si sottraeva, sempre gentile, sempre disponibile, spesso spiritoso. Anche il 41 bis può essere più facile da sopportare, se sai che non sarà una faccenda lunga. E se puoi fare lo sbruffone con quelli che ti hanno dato la caccia: «Senza il tumore non mi avreste mai preso». Precedenti penali? «Credo di sì». Come si è nascosto? «Se vuoi nascondere un albero piantalo nella foresta». E poi, spiegava, era facile non farsi prendere: «Il maresciallo che metteva le telecamere era sempre lo stesso».

Solo dopo la sua cattura ci hanno spiegato che non era il Capo dei Capi, non era l'erede di Riina e Provenzano, di cui pure era stato indicato come il successore naturale. Non poteva esserlo per l'ovvio motivo che non era di Palermo né di Corleone, e finché esisterà Cosa Nostra non si darà mai che a dirigere la Cupola sia uno venuto da una provincia dell'impero. Non poteva essere lui anche perché troppo diverso nella testa, lontano anni luce dai cavernicoli che per trent'anni hanno tenuto in scacco una nazione, dalle belve sanguinarie che - strage dopo strage - hanno trascinato nel baratro la stessa Cosa Nostra. Assassino e criminale anche lui, la ferocia come ferro del mestiere. Ma separato da un abisso di letture e di ironia dai viddani di Corleone. Più che rispettarli li temeva, ne conosceva da vicino la passione per il sangue, l'astuzia, la rozzezza. «Quello che Vossia decide», scrisse un giorno a Provenzano, che doveva mediare in una faida tra clan: una reverenza sarcastica, un omaggio ipocrita ad un potente che per Matteo apparteneva irremediabilmente al passato.

Basti pensare alle latitanze. Riina sempre lì, travet del crimine tra Palermo e Corleone, con la moglie brutta e i figli un po' criminali e un po' sfigati, impresentabili come candidati al trono. Provenzano ancora peggio, ridotto a comunicare a pizzini, lo sguardo torvo, opaco. E intanto lui, Messina Denaro, chi sa dove in giro per la Sicilia e per il mondo, tra affari e poker, tra belle donne e buone letture: come sia accaduto non si sa, il buco nero della sua biografia sono i vent'anni che trasformano un picciotto in un viveur. Aveva un rimpianto, non avere studiato abbastanza: «Se potessi ritornare indietro conseguirei la laurea senza margine di dubbio. Non dico ciò perché avrei voluto avere un altro tipo di vita, no, io sono soddisfatto della vita che ho avuto, la rifarei, vorrei la laurea solo per me stesso e non per altro».

E quindi chi era davvero, il sessantenne che ieri si spegne al San Salvatore? Un «criminale onesto», come dice lui? No: un criminale sveglio ed efficace, dannatamente contemporaneo, intelligente, che legge Svetonio e Pennac, uno che forse non ha ordinato di strangolare e sciogliere nell'acido un ragazzino, ma non si è opposto alla decisione di Riina. Uno che forse capiva che le bombe avrebbero segnato la fine di Cosa Nostra, ma non si è messo di traverso alle follie dei Corleonesi. Uno che è rimasto libero per trent'anni, di cui gli ultimi tre a due passi da casa: «Albero nella foresta», certo, ma anche custode di affari e di segreti della eterna zona grigia tra lo Stato e l'Antistato. Ieri Messina Denaro muore, e quei segreti muoiono con lui.

Gli affari no.

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