C'è chi è convinto che sia un rettiliano, cioè un extraterrestre che ha assunto sembianze umane. C'è chi pensa che non esista: le foto in cui è ritratto sorridente altro non sarebbero che «ologrammi proiettati tramite impianti bioplastici». C'è chi ipotizza che sia il Capo del Nuovo Ordine Mondiale: quale, non si sa. C'è chi, con scarsa immaginazione, lo classifica come agente della Cia. Fin qui sul Web. E poi c'è chi al «brutto bastardo figlio di una puttana schifosa» spedisce lettere minatorie per posta ordinaria: «Piantala di collaborare con i tuoi padroni Massoni illuminati, piantala di dire bugie, luride menzogne, sennò ti uccido, ti uccido come un maiale, con il mio coltello ti squarcio lo stomaco e ti faccio uscire le budella».
Date le premesse, ci si chiede quale arcano impulso autolesionistico abbia indotto il divulgatore informatico Paolo Attivissimo, cacciatore e studioso di bufale, a mettere online il suo indirizzo privato di Barbengo, 8 chilometri da Lugano. Risposta semplice: siccome svolge la benemerita missione in modo gratuito, ha pensato di applicare la legge dello shareware, il software distribuito liberamente, il cui autore viene remunerato con donazioni volontarie dagli utenti soddisfatti. E ha inventato il pizzaware: «Le mie ricerche ti sono state utili? Allora offrimi una margherita e una birra». Così Fabrizio, che abita vicino a Genova, gli ha portato fino a casa la focaccia di Recco. Alessandro, italiano emigrato in Germania, è partito da Regensburg per recapitargli due casse di bionda bavarese. Paolo gli ha spedito da Modena una boccetta di aceto balsamico del 1967.
Lo studioso della disinformazione mediatica, cui l'enciclopedia Treccani ha affidato la stesura della voce sulle bufale per Il Libro dell'Anno 2014, ritiene che il pizzaware («non basta a pagarmi neppure la bolletta del telefono, 150 franchi al mese») sia l'antidoto perfetto contro i complottisti. «Io li chiamo fantastiosi, perché vivono di fantasie e sono pieni di astio». Gente di bocca buona abituata a bersi davvero di tutto, a cominciare dalla Coca-Cola che secondo loro verrebbe usata per lavare il sangue negli incidenti ferroviari, smacchiare il water, sciogliere un osso in due giorni, rimuovere la ruggine e molto altro ancora. «È noto il potere detergente dell'anidride carbonica. La bibita americana ne è ricca. Ma non si capisce perché, anziché usare semplicemente acqua minerale, si dovrebbe impiastricciare una qualsiasi macchia aggiungendoci lo zucchero e il caramello della Coca. Non ha alcun senso».
Il Disinformatico - lo hanno ribattezzato così - ha cominciato la sua carriera con due libri, Winword per tutti e Internet per tutti. Ne sono seguiti altri 16, sempre d'informatica. In precedenza, avvalendosi delle clausole scritte in corpo 6 che nessuno legge, era riuscito a farsi rimborsare dalla Acer il costo del sistema operativo Windows 98 che aveva trovato preinstallato sul computer portatile appena acquistato: «A me bastava Linux». Nel 2004 s'è trasformato in blogger. Il suo Attivissimo.blogspot.com, concepito come discarica di deliri digitali, è seguito ogni giorno dai 20.000 ai 50.000 internauti e ha oltre 150.000 follower (vulgo, seguaci) su Twitter. Technorati, motore di ricerca dedicato ai blog, lo ha classificato nel 2006 fra i dieci blogger di lingua italiana più influenti. Attivissimo ha creato con Elena Albertini anche il Servizio antibufala (Antibufala.info), che, totalizzati 9 milioni di visitatori, s'è trasformato da pochi giorni nella Bufalopedia, catalogo completo delle indagini da lui svolte sulle più assurde panzane fatte circolare su Internet. Da nove anni, ogni venerdì mattina alle 11, parla in diretta di questi argomenti alla Rsi, la radio della Svizzera italiana.
Attivissimo è nato nel 1963 a York, in Gran Bretagna, dove il padre Gaetano, pugliese che aveva fatto l'interprete per gli Alleati a Taranto durante la seconda guerra mondiale, era emigrato in cerca di fortuna, sposandovi Pauline. Ha frequentato la scuola dell'obbligo a Bereguardo e le superiori a Pavia. Nel 1992, dopo il matrimonio con Elena Faro, che lo ha affiancato come editor nel suo lavoro di traduttore tecnico, la decisione di lasciare il nostro Paese: «Per disperazione».
Non vi offriva sbocchi?
«Esatto. Abbiamo vissuto sette anni in Lussemburgo e sette nel Regno Unito. Dal 2004 abitiamo in Svizzera, con le nostre due gemelle, Lisa e Linda. L'altro figlio, Simone, risiede a Pavia».
Quanti computer possiede?
«Quattro portatili, 3 fissi e una ventina dismessi. Più 3 tablet e 6 smartphone».
Quante ore al giorno ci passa davanti?
«Possiamo dire 24? Facciamo 20, toh».
Perché una notizia fasulla si chiama bufala?
«Bella domanda. L'ho chiesto anche a Francesco Sabatini, compilatore del dizionario Sabatini Coletti, un giorno che ci siamo trovati insieme a Ravenna per una celebrazione dantesca, ma non lo sapeva neppure lui. Se per caso lo scopre, me lo dica lei».
Provvedo: «Menare o tirare altrui pel naso come un bufalo, vale aggirarlo, burlarlo, condurlo con finzione a far ciò che uno vuole». Dal vocabolario 1863-1923 degli Accademici della Crusca, di cui Sabatini è presidente onorario. Non dovrebbe essere lei l'esperto che scopre tutto?
«Questa ricerca era a bassa priorità».
Svelare le bufale del Web servendosi del Web non è un controsenso?
«Interpello anche esperti dei vari rami e consulto la letteratura scientifica. È vero, uso Internet per smentire Internet. Ma la Rete è come il telefono: un mezzo anodino. Dentro ci sono verità e bugie».
Perché la gente si fa infinocchiare?
«Le bufale sono una versione moderna delle fiabe. Rispondono a bisogni molto umani: offrono una narrazione accattivante, hanno un fondamento di credenza reale, contengono una morale. Rappresentano una gratificazione sociale: chi le racconta, cattura l'attenzione e passa per uno che la sa lunga. Inoltre la gente pretende che ogni cosa si adatti ai propri preconcetti. Purtroppo il mondo è assai complicato. Ma il grande pubblico non vuole studiare, ha bisogno di dare spiegazioni semplici a problemi complessi. Le scie chimiche degli aerei? Non sono forme di condensazione prodotte dal ghiaccio atmosferico, come dimostra la meteorologia: molto più facile attribuirle alla Cia».
La Cia c'entra sempre, vedi gli attentati dell'11 settembre 2001.
«Le speculazioni numerologiche fatte su quella data sono alla base del complottismo. Ne cito una sola. Il volo 77, che si schiantò contro una delle Torri gemelle, portava 65 passeggeri: 6+5=11. Falso. Il volo 77 non colpì il World trade center, bensì il Pentagono, e aveva 58 passeggeri, dirottatori compresi, non 65. Anche tenendo conto dei 6 membri d'equipaggio, il totale delle persone a bordo è 64, non 65».
Come mai nel 2014 le bufale hanno avuto un'impennata?
«Editori e giornalisti hanno scoperto il business della bufala. Che importanza ha se una notizia è vera o falsa? Basta che gli internauti ci clicchino sopra per leggerla. Tot clic uguale tot incasso pubblicitario. È un cortocircuito mediatico fra Internet e media tradizionali: il giornalista scova sul Web una storia avvincente e di forte impatto emotivo, si fida acriticamente della fonte e, anziché verificarla, la pubblica. I siti del Daily Mail, di Usa Today, dell' Huffington Post, del Daily Mirror, del Washington Times hanno riportato la notizia secondo cui 11 aerei commerciali sarebbero scomparsi da Tripoli in vista della preparazione di un nuovo 11 settembre. Balla sesquipedale. Trattasi di una diceria inventata da alcuni blogger nordafricani».
Il 2015 non promette bene: Voyager il 2 gennaio ha rivelato che la sonda spaziale Rosetta avrebbe fotografato sulla cometa 67P Churyumov-Gerasimenko i resti di una base aliena.
«Il programma di Rai 2 ha attribuito a una fonte autorevole, il Washington Post, la rivelazione della notizia, affermando che un hacker l'avrebbe rubata alla Nasa e poi diffusa in Rete. Come prova, ha mostrato un'immagine: peccato che provenisse non dal Washington Post bensì da un rozzo fotomontaggio apparso su una pagina di Facebook chiamata Breakingnews99 e falsamente attribuita al Post. Quanto alla presunta base extraterrestre, era la pianta del Sanssouci, il castello fatto costruire a Potsdam da Federico II di Prussia».
Ma allora ha ragione Maurizio Crozza a chiamarlo Kazzenger .
«Il conduttore Roberto Giacobbo dà spazio a fesserie smontate da decenni, spacciandole per oro colato. E gli italiani abboccano, convinti che il servizio pubblico racconti sempre la verità».
Fesserie è plurale. Altri esempi?
«Le mitiche pietre di Ica, che secondo Voyager non dovrebbero esistere perché raffigurano scene di caccia con uomini e dinosauri insieme. In due documentari, trasmessi nel 1977 e nel 1996, la Bbc ha dimostrato che le presunte incisioni preistoriche sono state eseguite con un moderno trapano da dentista».
E la Rai non fa una piega.
«Lei pensi solo che Rai Storia, reputato un canale serio, ha presentato una foto storica memorabile che ritraeva medici di colore intenti a soccorrere in Alabama un attivista del Ku Klux Klan. Il razzista incappucciato e sanguinante salvato da coloro che egli odia. Ebbene, l'immagine emblematica era stata creata in studio per promuovere, in stile Oliviero Toscani, la rivista australiana Large».
Altre bufale dure a morire?
«C'è chi è convinto che lo tsunami del 2011 in Giappone sia stato provocato dalle emissioni elettromagnetiche della stazione di ricerca Harpp, costruita nel 1993 in Alaska dall'aeronautica militare degli Stati Uniti per ricerche scientifiche sull'atmosfera e sulla ionosfera. Nonostante non funzioni più da tempo, per i complottisti continua a trasmettere. Solo che aveva una potenza inferiore a quella di Radio Montecarlo».
Le onde sono come la Cia: ubique.
«Secondo i dietrologi, il Wi-Fi causa la morte invisibile: cancro, malformazioni, aborti spontanei, alterazioni della crescita ossea. Come fonte, citano il professor John Goldsmith, accreditandolo quale consulente dell'Organizzazione mondiale della sanità, e un documento della medesima intitolato International symposium research agreement No. 05-609-04. Ma Goldsmith non è affatto consulente dell'Oms: i suoi scritti riguardano radar per uso militare e trasmettitori tv, che nulla hanno a che vedere con il Wi-Fi in termini di potenza. Inoltre quel documento dell'Oms non esiste. Ed è la stessa Oms, al contrario, a dichiarare che il Wi-Fi non comporta rischi significativi neanche a lungo termine».
Perché il lavoro che fa lei non lo facciamo noi giornalisti?
«Perché è faticoso e comporta spreco di tempo, quindi ha costi elevati che gli editori, con la stampa in crisi, non possono sopportare. Capisco il loro punto di vista, anche se non lo condivido. Poi però non devono lamentarsi se perdono lettori. Io penso che quelli del suo giornale sarebbero ben lieti di sapere come fanno i pirati informatici a fregargli la password di accesso al conto corrente bancario».
Come fanno?
«La vittima designata riceve una mail che contiene un link. Cliccandoci sopra, si apre una pagina web gestita dall'aggressore ma identica a quella di autenticazione di un servizio usato dall'utente, per esempio Gmail. Chi ci casca e compila il form, regala le proprie credenziali ai malfattori. Siccome di solito abbiamo la brutta abitudine di usare la stessa password per tutti i siti, in quel preciso istante è come se fornissimo agli hacker un passe-partout per scassinarci l'intera nostra vita. Ogni giorno vengono rubate in questo modo 600.000 password soltanto su Facebook. In Rete circola un file con 4.929.090 account di Google violati».
Perché s'è cancellato da Facebook?
«Ero stufo. Troppo rumore di fondo. Non ho tempo per chiacchiere vacue».
Capisco.
«E poi ha snaturato la sua filosofia d'origine. Non è più solo uno strumento per conoscere nuove persone, ma un luogo dove le aziende si fanno un'idea di quello che piace ai consumatori. Vado a parlare nelle scuole e chiedo ai ragazzi: di che vive Facebook? Nessuno sa rispondere. Restano basiti quando gli spiego che Mark Zuckerberg analizza ciascuna le foto postate sul social network, per cui se ti fai ritrarre con una lattina di Red bull in mano, Facebook venderà alla ditta produttrice il tuo profilo completo. Oltre 1 miliardo di cittadini sono stati trasformati da Zuckerberg in merce per soddisfare inserzionisti e società di marketing. E non parliamo delle famiglie che si sfasciano».
(739. Continua)
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