Quanto tempo trascorrono i nostri figli con uno smartphone in mano e la vita aggrappata a un wifi? Certamente troppo. Probabilmente molto di più delle venti ore settimanali individuate dal ministro britannico della Cultura come linea del Piave (o del Tamigi?) per non rimbecillire del tutto.
Bene dunque. Ma non benissimo. Perché l'idea che siano i burocrati di un dicastero a stabilire e imporre questa regola educativa e a inventarsi come realizzare tecnicamente il timer che diventerebbe l'angoscia numero uno dei nostri adorabili virgulti a noi mette un po' paura.
Primo: il Grande Fratello occhiuto che spia e detta i tempi non ci rassicura. Che cosa arriverebbe dopo? Un filtro anti-Youporn per gli uomini sposati? Un tetto di 15 pietanze fotografate e postate ogni mese per foodblogger e instagrammer? Il divieto di gattini su Facebook?
Secondo e più rilevante: non spetta a un governo - per quanto composto di uomini di buona volontà - sostituirsi ai genitori nello stabilire i codici del comportamento degli adolescenti. È vero: molte mamme e molti papà si sono dimostrati piuttosto inefficienti nell'arginare l'abuso del cellulare da parte dei loro eredi.
Anzi, spesso ne hanno fiancheggiato la deriva internautica procurando loro gli ultimi modelli dell'iPhone e mostrandosi loro per primi dipendenti dalla rete. Ecco: forse i funzionari di Sua Maestà, come la gente del paesino di Sant'Ilario nella Bocca di Rosa deandreiana, danno buoni consigli non potendo dare il cattivo esempio. Ma, per favore: fatevi gli internet vostri.
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