Caro Verdelli, a "Repubblica" partigiani si diventa

E così il bravissimo Carlo Verdelli non è più direttore di Repubblica. Peccato. Venerdì ha salutato lettori e colleghi con un messaggio pieno di speranza e di impegno laico e civile nella missione del giornalismo.

Caro Verdelli, a "Repubblica" partigiani si diventa

E così il bravissimo Carlo Verdelli non è più direttore di Repubblica. Peccato. Venerdì ha salutato lettori e colleghi con un messaggio pieno di speranza e di impegno laico e civile nella missione del giornalismo. Pezzo ottimo. Difficile non stare dalla sua parte e difficile non stigmatizzare, come del resto hanno fatto tutti, l'infelice coincidenza tra il giorno in cui chi lo minacciava sul web gli preannunciava morte e il suo licenziamento (purtroppo legittimo) da parte della nuova maggioranza del gruppo Gedi da cui il quotidiano Repubblica dipende. C'è però, in tutto questo, una nota stonata. Verdelli nell'editoriale di addio, per rimarcare lo spirito combattivo (qualcuno preferisce dire fazioso...) del suo giornale, ha scritto: «Partigiani si nasce, e non si smette di esserlo». Ora: non solo la metafora, se è una metafora, suona a sproposito (alla fine a terminare Verdelli non sono stati i fascisti ma quelli del piano di sopra). Ma è la frase essere sbagliata. Come hanno dimostrato ampiamente due colonne di Repubblica come Eugenio Scalfari e Giorgio Bocca, si può benissimo essere fascisti convinti fino almeno all'estate del 1943 (insomma fino a 20-25 anni), e poi - semmai - fare il salto e diventare partigiani. Insomma, non si è partigiani per diritto acquisito o per predisposizione genetica. Ma per scelta. Verdelli, che peraltro è nato nel '57, a un certo punto ha deciso di diventare antifascista, non ci è nato.

E comunque, come ha fatto notare qualcuno, detto da uno che ha diretto la Gazzetta dello Sport e non l'Unità nel '42, e ha fatto parte del mondo di Vanity Fair, non di «Giustizia e Libertà», lo slogan, pur commovente, fa tenerezza.

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