Alla sfilza di archiviazioni incassate negli anni da Silvio Berlusconi, si è aggiunta ieri la richiesta della Procura di Roma di mandare in archivio l'inchiesta in cui il leader di Forza Italia era indagato per corruzione in atti giudiziari per una presunta sentenza pilotata al Consiglio di Stato.
La decisione sulla quale indagavano il procuratore aggiunto Paolo Ielo e i pm Stefano Rocco Fava e Fabrizio Tucci è quella che nel marzo del 2016 consentì al Cavaliere di mantenere una quota azionaria in Mediolanum più alta di quanto volesse Bankitalia. Un verdetto che ne aveva ribaltato un altro del Tar del Lazio che nel 2014 lo aveva obbligato a cedere la propria quota di azioni eccedente il 9,99 per cento, ovvero circa il 20 per cento del valore di circa un miliardo di euro, detenuto in Banca Mediolanum, a causa della perdita dei requisiti di onorabilità richiesti agli azionisti degli istituti in seguito alla condanna definitiva per frode fiscale legata ai diritti Mediaset. Via Nazionale aveva imposto a Fininvest di liberarsi della quota in Mediolanum entro 30 mesi con la possibilità di conferirla intanto a un trust. E nel gennaio del 2015 Fininvest si era adeguata, ma Banca d'Italia a sorpresa aveva concesso al Biscione solo 30 giorni per il trasferimento della quota. Decisione contro la quale il Cavaliere aveva fatto ricorso.
I magistrati sospettavano che la sentenza favorevole a Berlusconi fosse stata «aggiustata» e per questo, oltre a quello dell'ex premier, avevano iscritto nel registro degli indagati anche il nome del relatore del verdetto, il giudice Roberto Giovagnoli. La richiesta di archiviazione è arrivata anche per il togato e per gli altri indagati dello stesso filone, l'avvocato Francesco Marascio e l'ex funzionario di Palazzo Chigi, Renato Mazzocchi. A casa di quest'ultimo, due anni fa, nell'ambito di un'altra operazione relativa ad un'indagine più ampia su appalti e affari gestiti da esponenti della politica e dell'imprenditoria, furono trovati 250mila euro in contanti e copie di alcune sentenze del Consiglio di Stato, tra cui la bozza del verdetto Mediolanum. Ma la Procura non ha trovato alcuna prova che quei soldi, custoditi in un armadio diverso da quello dove erano riposti i documenti, fossero destinati a pilotare le sentenze di Palazzo Spada e ha chiesto l'archiviazione per tutti gli indagati. Non sono arrivati riscontri all'accusa neanche dagli altri soggetti tirati in ballo da Piero Amara, l'avvocato che dopo essere stato arrestato a febbraio scorso nell'ambito della maxi-inchiesta sul Consiglio di Stato sempre per corruzione in atti giudiziari, ha cominciato a collaborare con i magistrati di Roma, Milano e Messina svelando un presunto sistema collaudato per aggiustare le sentenze e facendo anche i nomi di giudici amministrativi che, a suo dire, sarebbero stati «avvicinati». Parlando però sempre di fatti «de relato», di cui non aveva conoscenza diretta.
Sono state le sue dichiarazioni a dare nuovo impulso a questo filone di indagine sulla sentenza Mediolanum altrimenti destinato da tempo a finire in un nulla di fatto. Tuttavia neanche dalle altre persone tirate in ballo dal legale, tra i quali il giudice Nicola Russo e l'ex parlamentare Denis Verdini, sono emersi elementi utili a sostenere l'accusa.