Quel cecchino per fiction simbolo del nostro coraggio

Boom di spettatori per «American Sniper», il nuovo film di Eastwood che esorcizza l'angoscia di una civiltà sotto l'attacco islamico. Senza dimenticare l'orgoglio

Quel cecchino per fiction simbolo del nostro coraggio

Che ci sia una relazione fra il successo travolgente di American Sniper e l'angoscia collettiva figlia del terrorismo, sembra evidente. Il film di Clint Eastwood sta sfondando negli Stati Uniti tutti i record d'incasso, lo scorso weekend incassando quasi cento milioni di dollari. In Italia ha fruttato finora alla Warner Bros sedici milioni di euro e restano affollatissime le sale in cui il volto intenso, triste ma determinato di Bradley Cooper interpreta il tormento di chi uccide per salvare vite umane. Il film di sicuro arriva sostenuto da un valore aggiunto delle ultime settimane: l'angoscia collettiva che sta contaminando anche l'Europa: un'angoscia sempre più palpabile specialmente dopo la mattanza di Charlie Hebdo a Parigi e la reazione che quell'angoscia ha innescato: i due milioni di manifestanti a Parigi e un film che riesce ad interpretare e medicare quell'angoscia.

Il tiratore scelto americano è una figura nuova del cinema di guerra, perché non è un vendicatore, non è Rambo, non è un robot umano con dei superpoteri, ma è un uomo e determinato, senza enfasi e senza rabbia. Il vero soldato che ha ispirato il film sui terroristi islamici che usano anche i bambini per caricarli di esplosivo. E allora dobbiamo veramente chiederci se stia accadendo qualcosa di profondo e di inquietante in noi stessi, a prescindere dal film che funziona come un test delle macchie d'inchiostro: ognuno vede la risposta alle proprie paure.

Sono rimasto molto impressionato quando due persone nel giro di dieci minuti mi hanno detto di avere paura a prendere la metropolitana e di non riuscire a dormire come prima. Esitiamo a dire che l'«inconscio collettivo» (se ne esiste uno) si sia trasformato nello sniper inconscio. Certo, il film è americano, il pubblico da cento milioni è americano, la storia, il regista e il personaggio sono tutti americani. Ma anche in Italia, oltre che in Francia, nelle ultime settimane sono stati alimentati due sentimenti incompatibili con la vita civile del normale vivere civile: la paura nell'angoscia e il desiderio di reagire. O almeno sapere che c'è qualcuno che reagisce per te e ti protegge. Ed è certamente lui, l'eroe metodico di questo film che si comporta come un drone dall'animo umano: colpisce per proteggere collegato via radio con una cabina di regia.

Non c'è in lui nulla di enfatico, ma di preciso (la mira, la pressione sul grilletto) e mestamente rassicurante. Del resto è la prima volta nella storia dell'intera Storia, che ci troviamo di fronte al fenomeno planetario di una guerra che divampa e spurga sangue dai televisori e dai telefonini, una guerra capace di mettere in moto sentimenti enormi e risentimenti anche più grandi, sempre più irreparabili. Così, la matita del vignettista che sa di rischiare la pelle insieme al fucile di alta precisione del soldato Kyle diventano i simboli della necessità esistenziale, prima che militare, di resistere, di non offrire il collo alla lama dello sgozzatore. Il momento più tormentato del film è quello in cui una donna velata consegna a un bambino la granata che aveva nascosto sotto i vestiti. Il bambino cammina per recapitare la granata destinata ad uccidere molti esseri umani. Lo sniper con angoscia e disgusto tira il grilletto.

La realtà ha mostrato dieci giorni fa nella Nigeria Nord orientale una bambina imbottita di esplosivo mandata nel mercato di Maiduguri dove i suoi mostruosi burattinai l'hanno fatta saltare in aria con un telecomando provocando venti morti e altrettanti feriti. Che cosa avrebbe fatto il tiratore di precisione del film, se avesse avuto quel piccolo essere umano nel mirino? Quali sono gli esatti confini del comandamento che ordina «non uccidere» ?

L'Italia non ha vissuto soltanto l'emozione collettiva europea di Parigi, ma anche lo stillicidio delle continue notizie sui combattenti islamici che entrano ed escono dal nostro Paese, e poi la storia delle due ragazze catturate in Siria e riscattate, a quanto sembra, a suon di milioni dei contribuenti rompendo il doloroso patto fra i Paesi europei che impone di non finanziare i terroristi, anche a costo di sacrificare gli ostaggi.

Il film di Eastwood (convinto di aver fatto un film «contro» la

guerra) si è trovato nella imprevista condizione di funzionare come un rimedio alla paralisi che il terrore ottiene dalle sue vittime. E di farlo senza scompostezze eroiche, ma con una nuova misura del dolore e del dovere.

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