
Carla Zambelli è in carcere a Rebibbia. L'ex deputata brasiliana di origine italiana, volto del bolsonarismo più intransigente, è stata arrestata a Roma dopo settimane di latitanza in Italia. Era in un appartamento in zona Aurelia e a segnalarlo sarebbe stato il deputato dei Verdi Angelo Bonelli, che ha rivendicato il merito dell'operazione anche se l'avvocato della deputata smentisce: "È stata lei stessa a contattare le autorità italiane". Zambelli era ricercata dall'Interpol per una condanna definitiva a dieci anni in Brasile con l'accusa di aver fatto inserire documenti falsi nei sistemi informatici del Consiglio nazionale di giustizia. Lei si dice innocente, vittima di un accanimento giudiziario e di una persecuzione politica, "lawfare" lo chiamano in Brasile. Per il governo italiano, ora, la patata è bollente: estradarla? Trattenerla? Concederle i domiciliari? Il tempo è poco: l'udienza si terrà venerdì primo agosto alle ore 11 davanti alla Corte di Appello. Intanto Matteo Salvini rompe gli indugi: chiede di incontrarla in carcere. Non è un gesto da sottovalutare, perché tra la Lega e il mondo bolsonarista esiste da tempo un legame politico solido e un filo diretto: stessa lingua, stessi nemici, stessi obiettivi. Una battaglia frontale contro una magistratura accusata di essere il braccio armato della sinistra e contro chi, in nome del globalismo, mette in discussione identità nazionale e sovranità. Salvini ha più volte definito Jair Bolsonaro un "leghista ad honorem" e proprio pochi giorni fa, quando anche all'ex presidente brasiliano è stato imposto il braccialetto elettronico, il leader del Carroccio ha scritto su X: "Bolsonaro è perseguitato dalla magistratura di sinistra, ma amato dal suo popolo. Andiamo avanti, a testa alta. Mettiamocela tutta".
Il figlio di Bolsonaro, Eduardo, ha rilanciato con entusiasmo: "Grazie per le tue parole, Salvini. Anche tu sei stato vittima di questo lawfare nei tribunali italiani semplicemente per aver fatto la cosa giusta per il tuo popolo". Dal carcere intanto Zambelli affida le sue parole a un video: "Se dovrò scontare qualsiasi pena, sarà qui in Italia, che è ancora un paese giusto e democratico. Qui non c'è un dittatore al potere". Parole pesanti che suonano come un atto d'accusa al Brasile di Lula, il presidente tornato al potere con l'applauso entusiasta dei progressisti europei. Ma nelle fila della nostra sinistra c'è chi non gradisce. Fabio Porta, deputato Pd, è netto: "Il reato per il quale Zambelli è stata condannata è molto grave, è giusto che sia la giustizia brasiliana a gestire la pena. Non ci devono essere eccezioni". E invece un'eccezione, stavolta, potrebbe esserci.
Perché il caso Zambelli tocca nervi scoperti: il rapporto tra giustizia e politica, tra sovranità nazionale e obblighi internazionali. Non è solo una questione diplomatica ma può diventare un banco di prova per capire quanto conti davvero, oggi, il peso della politica nelle scelte di giustizia.