Coronavirus

Cent'anni di virus

Carlo Patriarca, medico e romanziere, ha scritto un libro sulla Spagnola che sembra raccontare i nostri giorni: "La differenza con il Covid-19? Noi più paurosi dei nostri nonni"

Cent'anni di virus

Carlo Patriarca è medico. Dirige il reparto di Anatomia patologica dell'ospedale di Como. Ma è anche romanziere. Poco prima che esplodesse il Covid-19 aveva scritto un romanzo storico su due medici in lotta a Milano contro la Spagnola intitolato La Sfida. Nessuno conosce questi due killer meglio di lui.

Cosa racconta «La Sfida»?

«Il dilemma di due medici nel pieno della guerra e dell'epidemia che curano sapendo di reinserire il paziente in un ambiente che li farà ammalare di nuovo. Il terreno di scontro sarà proprio la cura dei malati di Spagnola, oltre che dei fanti feriti, simulatori e autolesionisti compresi».

È ambientato a Milano: sembra quella di oggi.

«Sì, ma allora al picco dell'epidemia Milano contava più di cento morti al giorno».

Cosa fu la Spagnola?

«La pandemia più grave della storia dell'umanità, colpì più i giovani dei vecchi e provocò tra i 50 e i 100 milioni di morti. Fu la prima pandemia moderna, affrontata cioè con criteri che oggi definiamo scientifici».

In cosa è diversa dal Covid-19 e in cosa è uguale?

«Anche allora nelle città italiane le autorità sanitarie e comunali si spesero moltissimo per raccomandare igiene personale e pulizia delle mani in un Paese dove più della metà delle case non aveva acqua potabile, e per sollecitare, con scarso successo, l'uso delle mascherine. Si fece molto per la pulizia ma non abbastanza per evitare gli assembramenti, a differenza di oggi».

Fu ignorata per decenni.

«Perché la retorica dominante non sapeva come utilizzare una catastrofe sanitaria come la Spagnola. Del resto l'uomo ha sempre nascosto il corpo dell'infetto, è quasi un dato antropologico. Bisognerà arrivare all'Aids per assistere a un dibattito diverso sulla malattia infettiva».

E la censura intervenne?

«Ci fu quella ideologica della politica e della stampa interventista che temevano la demoralizzazione dell'esercito in guerra e l'autocensura imbarazzata della classe medica, che usciva dai trionfi delle grandi scoperte microbiologiche di fine Ottocento».

Il coronavirus invece...

«Per Covid 19 l'attenzione è altissima. Questo ci ha impedito di distrarci e avrà di sicuro un prezzo psicologico».

Com'è finita la Spagnola?

«Iniziata in sordina nel giugno del 1918 ebbe la sua esplosione massima a ottobre, poi ci fu un terzo picco molto meno mortale nei primi mesi del 1919. Nel 1920 si spense».

Cosa la sconfisse?

«La Spagnola era un virus a sovrapposizione batterica. La scoperta successiva della penicillina, l'avvento degli antibiotici, i microscopi elettronici che furono assemblati negli anni Trenta fecero la differenza».

E non è più tornata?

«L'H1N1 riapparso nel 2009 con la suina era quello della Spagnola. Le cause di quell'epidemia non furono comunque mai identificate con certezza».

Due generazioni, due reazioni diverse. Cosa insegnano le epidemie sull'uomo?

«La morte era un'idea sempre presente nelle generazioni di cent'anni fa, noi invece abbiamo espulso la morte per malattia infettiva dal novero delle possibilità. Senza dimenticare altre due epidemie influenzali, quella del 57 e quella del 68: fecero più di un milione di morti ciascuna».

Quindi erano più preparati.

«Di sicuro. Mio padre, medico anche lui, ricordava che per l'Asiatica non c'era lo sguardo ossessivo che c'è oggi e gli anziani morivano per primi anche allora. Lo spavento oggi è più contagioso del virus».

Ne usciremo migliori o uguali a prima?

«Di sicuro cambiati, ma non necessariamente in meglio».

Cosa vuol dire avere paura di una malattia?

«Guardarla in faccia: solo questo ci aiuterà a domare la paura».

Alla fine andrà tutto bene?

«Non è andato tutto bene.

Ma per fortuna le epidemie finiscono sempre».

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