In Cina crisi economica e inquinamento record Soffoca la svolta "green"

Servono 230 miliardi per rispettare i patti sul clima: obiettivo impossibile per Pechino

In Cina crisi economica e inquinamento record Soffoca la svolta "green"

Dal centro di piazza Tienanmen il grosso ritratto di Mao Zedong che campeggia all'entrata della Città proibita si scorge a malapena. Una spessa coltre di smog ha abbassato la visibilità a meno di 200 metri. La municipalità di Pechino ha lanciato il codice arancione, il secondo più grave dopo il rosso, impedendo ai camion di circolare, chiudendo gli aeroporti e avvisando le scuole di «limitare le attività all'esterno». L'aria è così inquinata, infatti, da diventare pericolosa soprattutto per bambini e anziani. Quando si avvicina l'inverno Pechino diventa invivibile per l'inquinamento, ma per anni il governo cinese ha fatto finta di niente mentre il Quotidiano del popolo scriveva che lo smog «è un bene» perché colpendo ogni persona «ci rende tutti uguali». Inoltre, nasconde il Paese «in caso di attacco missilistico». Da quando però, secondo i dati dell'Oms, l'inquinamento dell'aria è arrivato ad aggravare la salute di 3 milioni di persone ogni anno fino alla morte, lo Stato ha deciso di intervenire.

Quest'anno la situazione è ancora più grave, se è vero quanto dichiarato nel fine settimana da Wang Jinnan, capo ingegnere dell'Accademia cinese per la panificazione ambientale: «La Cina è diventato ormai il Paese nel mondo che emette più diossido di carbonio e più agenti inquinanti di ogni tipo», ha ripreso le sue parole il South China Morning Post. «Questo record crea problemi senza precedenti alla qualità dell'aria». Del resto, ci sarà un motivo se a Pechino le lattine di «aria pura e non inquinata» sono salite di prezzo fino a 30 euro l'una (219 yuan).

La Cina, che produce insieme agli Stati Uniti il 45% delle emissioni di Co2 mondiali, ha assicurato che avrebbe ridotto l'inquinamento investendo l'1,5% del Pil. Ha anche promesso durante la Conferenza sul clima di Parigi del 2015 di fermare l'aumento delle emissioni di Co2 entro il 2030 e di raddoppiare fino al 20% il suo utilizzo di energia pulita. Un obiettivo importante, visto che il Dragone dichiara di emettere 10,4 miliardi di tonnellate di Co2 all'anno e la sua economia è basata per quasi il 90% sui combustibili fossili. Purtroppo il partito comunista non sta mantenendo le promesse. Anzi.

La produzione di carbone è tornata ad aumentare. A Jincheng, una città che vive di combustibili fossili, si cercano minatori, le paghe sono aumentate del 50% e le miniere, che prima potevano operare solo 276 giorni all'anno, ora sono funzionanti per 330. A novembre dell'anno scorso il partito comunista ha autorizzato una spesa di 74 miliardi di dollari per costruire 155 nuove centrali a carbone super inquinanti. In estate il New York Times ha rivelato che da qui al 2020 la Cina ha progettato di costruire una nuova centrale a carbone a settimana, a fronte di una spesa di 135 miliardi di euro.

Ora, per raggiungere gli obiettivi ambientali fissati sulla carta, secondo Wang il governo dovrebbe spendere solo entro la fine dell'anno circa 230 miliardi di euro. Ma in un momento in cui l'economia cinese rallenta a ritmi preoccupanti è improbabile che Pechino abbandoni il carbone per fonti energetiche pulite ma molto più costose. L'atteggiamento della Cina è la dimostrazione che lo «storico» accordo di Parigi, che doveva «cambiare il pianeta», vale meno della carta straccia. Il testo ratificato, infatti, non è vincolante e nessuno può imporre al Dragone o agli Stati Uniti di rispettare gli impegni presi. E chissà che non si parli anche di questo a gennaio al World Economic Forum, dove per la prima volta si recherà anche un presidente cinese: Xi Jinping.

È dal 1979 che la Cina ha scelto di fondere autoritarismo politico e capitalismo sfrenato. Ora con la visita del leader comunista più potente dai tempi di Mao nel cuore del capitalismo, a Davos, il percorso cominciato con Deng Xiaoping si può dire concluso.

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