
La storia è una cosa bellissima ma può essere anche una grande rottura di scatole. Firenze ne sa qualcosa. L'Enoteca Pinchiorri, da decenni il migliore ristorante della città, pure di più. Al punto che lo chef Riccardo Monco, 53enne milanese di ascendenze sarde da 32 anni a Firenze (il suo accento è una specie di Expedia) se ne fa un cruccio. Il locale è sempre pieno, intendiamoci, ma Monco e il suo vice Alessandro Della Tommasina da anni si battono per mantenere questo tempio della gastronomia al passo coi tempi (e garantisco: ci riescono) ma sentono di non essere sempre capiti. O meglio, di essere dati per scontati, racchiusi in uno stereotipo. Godurioso ed extralusso, ma pur sempre uno stereotipo.
L'Enoteca (a Firenze è chiamata semplicemente così) è un luogo di culto assoluto. Ospitata nel settecentesco palazzo Jacometti-Ciofi, al numero 87 di via Ghibellina, nasce come Enoteca Nazionale nel 1972 e il giovane emiliano Giorgio Pinchiorri è lì che inizia a selezionare e stappare bottiglie da Champions League. Dopo un po' qualche cliente gli dice che no, non sarebbe male se ci fosse pure qualcosa da piluccare; inizialmente è una faccenda di pane sciapo, salumi e formaggi di altissimo livello, poi l'ambizione cresce, arriva una vera cucina e a deliziare i "wine lovers" di via Ghibellina, che a quel tempo nemmeno il più fomentato degli anglofili avrebbe chiamato così, viene chiamata Annie Féolde, la moglie nizzarda di Giorgio, che mostra un certo qual talentaccio.
I tempi sono maturi. Nel 1979 Pic e Anna (così si chiamano tra di loro) fanno il grande salto, rilevano il locale, lo ingrandiscono e lo trasformano in un ristorante vero e proprio, l'Enoteca Pinchiorri. Sono anni in cui la cucina italiana è in trasformazione, arrivano i primi echi della Nouvelle Cuisine a elettrizzare una scena soporifera, e l'opera struggente di quel formidabile genio ancora poco noto che è la Anna, con il suo impegno nel portare la tradizione toscana nella modernità, attira le attenzione dei gastronomi di allora, pochi ma illuminati (l'esatto contrario di oggi, ma questo è un altro discorso) come Edoardo Raspelli, Luigi Veronelli, Luigi Carnacina. Inizia un percorso glorioso, stelle, una, due, tre, poi di nuovo due, poi di nuovo tre, premi, riconoscimenti, perfino un po' di televisione, che alla fine serve eccome.
L'Enoteca è, per dire, l'unico ristorante italiano che abbia a un certo punto perso le tre stelle e le abbia poi riconosquistate. Accade che nella notte tra il 14 e il 15 novembre 1992 la leggendaria cantina subisce quello che a tutti appare un attentato incendiario, viene semidistrutta e con essa migliaia di bottiglie dal valore folle. La Michelin non può che abbassare, a malincuore (ma i francesi della rossa hanno un cuore?) il rating del ristorante, privato di una delle sue attrattive principali ma niente paura, nel 2003 l'Enoteca torna al lignaggio che le è proprio.
Oggi l'Enoteca è condotta da Riccardo Monco, chef, e da Alessandro Tomberli, maître, soci di Giorgio e Anna, il primo che ogni tanto fa ancora capolino e la seconda che invece non si vede più, non sta bene, e certo manca il carisma di quella che fu la prima chef donna tristellata. Monco ha carattere, la sua cucina evolve in continuazione, rifugge dallo storytelling, parola che lui confessa di detestare (come dargli torto?), e i piatti sono raccontati senza nomi suggestivi (niente boschi autunnali o "come una panzanella", formule che Annie aborriva) e rifugge altrettanto dai virtuosismi spagnoleggianti che lui non trova adatti alla nostra postura culinaria, fatta di ingredienti e non di gesti eclatanti.
I due menu sono Espressione, il fermo immagine del movimento incessante dello chef, e Madre Terra, più centrato sulla stagione e sull'ingrediente. Entrambi costano 390 euro, un prezzo che è un tributo a una cattedrale della nostra storia gastronomica ma anche a una cucina messa perfettamente a fuoco (e naturalmente anche a un servizio perfetto, e a quel prezzo ci mancherebbe altro).
Dei piatti ricordo con particolare piacere la Trippa di seppia al latte di Parmigiano Reggiano 24 mesi, con salicornia, polvere di limone fermentato e chimichurri ai fagiolini verdi; la Scarola con anguilla affumicata , perle di vinaigrette al miele, salsa al levistico, panna montata all'anguilla affumicata e foglia di scarola; gli Gnudi cremosi di spinaci e ricotta con emulsione di pinoli di San Rossore e olio al pino marittimo; il Maialino di mora romagnola, cotto prima in brodo e poi allo spiedo, e servito con estratto di rucola, maionese alla carota, cicoria con mostarda; l'Agnello delle Dolomiti lucane arrostito con ricotta di pecora salata, riduzione di vermouth con cremoso ai peperoni dolci e foglia di barbabietola marinata, con accanto della carne di pecora stagionata e speziata. Va detto che la cena fila liscia, senza durare troppo, fattore questo sempre più importante nel cosiddetto fine dining, ormai le messe cantate da tre ore e mezza sono più appannaggio di certi giovani chef ambiziosi che voglio stupire (i libri più belli sono sempre quelli alti? I film da non perdere sono sempre le maratone?) che dei tre stelle, dove c'è un senso innato del ritmo e della misura.
Chi viene qui, prima o dopo cena, deve però assolutamente visitare la monumentale cantina, 3.500 etichette differenti, oltre 100mila bottiglie, una delle più mozzarespiro del mondo, la rivista|bibbia Wine Spectator da oltre quarant'anni la inserisce tra le cantine che valgono il viaggio nel mondo (le placche sono allineate giudiziosamente sul muro di un corridoio). Chi vuole può fare un aperitivo con visita: un calice di Champagne, alcuni sfizi della cucina e una visita guidata agli Uffizi dell'enologia.
Un appunto: sarebbe bello che il prezzo di questa esperienza fosse un po' più abbordabile dei 95 euro a persona richiesti, perché potrebbe essere l'entry level al mondo Pinchiorri, a cui tutti i fiorentini avrebbero diritto ad accedere una volta nella vita. L'ho detto. Anzi: l'ho scritto.