La condizione di Netanyahu: "Ostaggi a casa, poi tutto il resto"

Per il primo ministro israeliano il ritorno dei rapiti è imprescindibile per procedere con il tavolo. A Sharm el Sheikh il ministro Dermer e gli inviati Usa Witkoff e Kushner

La condizione di Netanyahu: "Ostaggi a casa, poi tutto il resto"
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Prima e imprescindibile condizione: tutti gli ostaggi tornino a casa, in Israele. Solo dopo si potrà passare alle altre clausole del piano Trump per la pace a Gaza. Alla vigilia dei negoziati che si aprono oggi a Sharm el-Sheikh, in Egitto, per la fine della guerra nella Striscia, Benjamin Netanyahu mette in chiaro che Israele non intende dar seguito a nessun altro impegno previsto dai 20 punti elaborati con l'amministrazione americana, a meno che non si concretizzi per prima cosa la liberazione dei 48 rapiti ancora nella Striscia. "Finché non verrà rispettato il primo punto, il rilascio di tutti gli ostaggi, vivi e morti, finché l'ultimo degli ostaggi, tutti quanti, non saranno trasferiti in territorio israeliano, non passeremo agli altri punti", ha detto il primo ministro israeliano durante un incontro con il Gvura Forum, associazione di destra che riunisce le famiglie dei soldati uccisi a Gaza.

Dopo la riunione convocata ieri con i vertici della Difesa, i consiglieri per la sicurezza e il nuovo capo dello Shin Bet, David Zini, il team negoziale ha ricevuto ordine da Netanyahu di partire oggi alla volta dell'Egitto, guidato dal ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer, responsabile della delegazione israeliana. Ai colloqui parteciperanno anche l'inviato statunitense Steve Witkoff e il consigliere e genero di Donald Trump, Jared Kushner. Ma se il presidente americano continua a mostrare ottimismo, il segretario di Stato americano Marco Rubio è più cauto: "Sapremo presto se Hamas fa sul serio", commenta.

Per Netanyahu sono ore complesse, anche se il leader israeliano è abituato alla gestione di crisi di ogni genere. Da varie ricostruzioni e analisi, emerge ormai che al capo del governo di Tel Aviv la risposta di Hamas, che Trump ha celebrato come un sì condizionato al suo piano, sarebbe invece sembrata da subito un no. "Bibi ha detto a Trump che non c'era nulla da festeggiare e che non significava niente", ha riferito ad Axios una fonte a conoscenza della telefonata intercorsa venerdì fra i due leader, in cui Trump ha accusato Bibi di essere "sempre così fottutamente negativo". Netanyahu conosce le insidie che si nascondono dietro alle trattative con gli integralisti, ma non ha potuto fare a meno di seguire l'onda di ottimismo di Trump. "Deve accettarlo. Non ha scelta. Con me, devi accettare", ha detto apertamente del piano il presidente americano, mettendo Netanyahu spalle al muro.

Domani in Israele, intanto, quando ricorreranno i due anni dal 7 ottobre, si riaprirà una ferita che non si è mai rimarginata. La priorità assoluta resta il ritorno degli ostaggi, una condizione che continua a mobilitare la piazza israeliana. Ma le questioni che seguiranno non sono meno importanti per il futuro del Paese, la sua sicurezza e per la sopravvivenza del governo Netanyahu. Hamas chiede un cessate il fuoco completo e il ritiro dell'esercito israeliano (Idf) alle posizioni che occupava durante l'attuazione del precedente accordo di gennaio, cioè fuori delle aree popolate della Striscia. E insiste che le misure vengano applicate per tutta la durata dei negoziati. Anche gli Stati Uniti insistono sullo stop ai raid. Non proprio quello che aveva immaginato Netanyahu, da sempre convinto che le trattative debbano svolgersi sotto pressione militare. Tanto che le Idf si dicono pronte a riprendere i bombardamenti "in ogni momento". E il capo del Pentagono conferma: "Israele può finire il lavoro se Hamas non rispetta l'accordo".

Presto si comprenderà se l'ostinazione del leader Usa riuscirà a superare le divergenze finora incolmabili fra Hamas e Israele, i nemici che da due anni si parlano attraverso i mediatori, inorriditi solo all'idea di sedere attorno allo stesso tavolo.

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