Gerusalemme - Il «venerdì della rabbia» s'accende nella notte. Prima ancora che il sole illumini la minuscola cupola verde della Tomba di Giuseppe, sacrario di un profeta venerato da ebrei e musulmani, i ragazzini palestinesi sono già lì. Scendono dai declivi del monte Geritzim, s'affacciano dai sobborghi di Nablus, sciamano dai viottoli del campo profughi di Balata. Poi è un attimo. Un formicolio di kefiah e stracci infiammati ne circonda le mura. Un «Allah Akbar» urlato da gole roche e voci bianche accompagna il fuoco delle molotov che divora pietre e cupola. Là in mezzo, prigionieri tra ragazzini mascherati e vampate rossastre, i poliziotti dell'Autorità Palestinese non muovono un dito. Poi, quando le fiamme diventano incendio, un ordine scuote l'inerzia. Mentre i pompieri palestinesi arginano l'incendio i miliziani bambinai spingono via i sedicenni avvolti nelle kefiah, allontanano i figli brufolosi di quest'«intifada» senza volto.
Un'intifada che tutti vorrebbero comandare, ma nessuno sa come controllare. Hamas, fedele ai vecchi metodi, annuncia da 24 ore una «giornata della rabbia». Ma nessuno sa se la rabbia di quei ragazzini sia quella invocata dall'organizzazione fondamentalista o, più banalmente, il rantolo di collera generato da un post Facebook o di un angolo oscuro del web. In quella Nablus illuminata dall'incendio e perfino in quel campo di Balata, un tempo centro d'incubazione di kamikaze e miliziani armati, nessuno sa esattamente chi guidi la nuova rivolta, chi muova questi ragazzini pronti ad affondare una lama nelle viscere del primo passante israeliano o ad incendiare, come già quindici anni fa, questo luogo di culto comune.
Certo il parallelismo con i fatti del 7 ottobre del 2000, quando l'assalto palestinese a questa stessa tomba rappresentò uno degli eventi iniziali della seconda intifada è sicuramente interessante. Ma non sufficiente per affermare che i fatti odierni siano la naturale prosecuzione di quelli di quindici anni fa. Hamas decapitata e spazzata via dalla Cisgiordania può forse influenzare, ma difficilmente manovrare queste fiamme e queste lame. E neppure i duri di Fatah, subalterni alla mummia politica del loro presidente Mahmoud Abbas alias Abu Mazen, hanno più la capacità di dar ordini.
Ma questo scenario senza capi e, per ora, senza evidenti adesioni ideologiche mette in difficoltà persino l'intelligence israeliana, confusa e incerta sul nemico da colpire. La rivolta si auto-alimenta e genera nuovi fronti: succede a Nablus dove - poche ore dopo l'arrivo dell'esercito israeliano - un centinaio di coloni, decisi a vendicare la profanazione della Tomba di Giuseppe, circonda la città palestinese. Intanto a Hebron, dall'altro capo della Cisgiordania, un palestinese travestito da fotoreporter si fa uccidere dopo aver ferito a coltellate un militare israeliano. In tutto questo l'estrema destra israeliana, vicina ai coloni, non perde l'occasione per soffiare sul fuoco. Per Avigdor Lieberman, l'ex ministro degli esteri e uomo simbolo di tanti coloni russofoni, «l'incendio di quella tomba prova che l'Autorità Palestinese non è diversa dall'Isis». Grande è insomma la confusione sotto il cielo di Palestina.
Ed eccellente la situazione per chi vuole far ripiombare quest'angolo di Medio Oriente nel consueto e ricorrente incubo.La prossima settimana, a Berlino, cercheranno di venirne a capo il segretario di Stato Usa Kerry e il premier israeliano Netanyahu.
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