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Coppie gay, invasione della Corte Ue

"Obbligo di riconoscere i matrimoni celebrati nei Paesi membri". Fdi: "Colpo politico"

Coppie gay, invasione della Corte Ue
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"Il rifiuto di riconoscere il matrimonio di due cittadini dello stesso sesso, legalmente contratto in un altro Stato membro dell'Unione europea, può provocare seri inconvenienti amministrativi, professionali e privati, costringendo i coniugi a vivere come non coniugati nello Stato membro di cui sono originari". Dietro questa formula apparentemente arida, una sentenza di ieri della Corte di giustizia europea introduce una specie di rivoluzione: ai singoli Stati del Vecchio Continente viene tolta la possibilità di decidere autonomamente se il matrimonio gay è giusto o sbagliato. Gli Stati che non hanno ancora aperto le porte alle unioni omosessuali, ora saranno tenuti a farlo. Se non lo faranno, ai loro abitanti basterà spostarsi di pochi chilometri, oltre una frontiera più accogliente, sposarsi e poi tornare a casa. E anche lì saranno ufficialmente marito e marito, o moglie e moglie.

È il risultato della battaglia combattuta da due gay polacchi, i signori Jakub Cuprak e Mateusz Trojan, che visto il divieto assoluto di matrimonio omosessuale nel loro paese avevano scelto di sposarsi a Berlino il 6 giugno 2018. Rientrati in patria si erano visti rifiutare il riconoscimento come coniugi dall'anagrafe di Varsavia. Avevano fatto ricorso al tribunale civile, e si erano visti di nuovo dare torto con una decisione che suona come una orgogliosa rivendicazione della linea polacca a difesa della famiglia tradizionale: "Accogliere il loro ragionamento porterebbe a far coesistere nell'ordinamento giuridico nazionale i matrimoni conclusi tra una donna e un uomo e quelli conclusi tra persone dello stesso sesso, il che non è previsto né dalla Costituzione né dalle leggi nazionali". Ma Cuprak e Trojan non mollano, chiedono e ottengono che la loro richiesta venga portata alla Corte di giustizia europea a Lussemburgo. E vincono.

La sentenza della Grande corte non obbliga i singoli paesi a aprire le porte in pieno ai matrimoni omosessuali, lasciando la scelta alle leggi nazionali, ma esige che una qualche forma di unione legale tra gay sia comunque prevista. In Italia, dove esistono le unioni civili, la decisione della Corte di Lussemburgo non avrebbe effetti concreti immediati, mentre li avrà sicuramente negli altri Paesi dell'Unione - oltre la Polonia ci sono l'Ungheria e la Romania - che finora avevano fatto muro alle unioni gay, e che ora dovranno scegliere se introdurre formi più blande di riconoscimento, o subire la imposizione tout court del matrimonio da parte della Corte europea. Così, inevitabilmente, la decisione riapre il dibattito sulla invadenza dell'Unione europea sui principi dei singoli Paesi: "Quando chiediamo all'Ue di fare qualcosa a sostegno della famiglia - dice l'eurodeputato di Fratelli d'Italia Paolo Inselvini (nella foto) - ci si risponde che non è loro competenza. Ma quando si tratta di imporre riconoscimenti e definizioni giuridiche di cosa sia una famiglia, non ci si fa scrupoli. Una evidente forzatura.

Ogni nazione ha pieno diritto di tutelare il proprio ordinamento civile senza pressioni esterne e senza automatismi che, di fatto, aggirano il principio di sovranità. Invece di tutelare la pluralità, si tenta sempre di uniformare tutti i popoli dall'alto".

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