Chiuso nella cella 315 al terzo piano del carcere di Bollate, Roberto Formigoni accoglierà probabilmente la notizia con una scrollata di spalle: perché gli hanno già sequestrato tutto ciò che possiede e anche quello che non possiede, e anche questi sessanta milioni in più non faranno che aggiungersi a un conto che non sarà mai in grado di pagare. Ad andare di traverso all'ex governatore della Lombardia, sarà piuttosto il teorema che la richiesta di sequestro sottende: e cioè che il «sistema Lombardia», l'alleanza tra pubblico e privato che ha fatto della sanità lombarda la più efficiente ed invidiata d'Italia, fosse solo e soltanto una macchina per affari illeciti. È questa, in fondo, l'accusa che Formigoni ha sempre considerato inaccettabile. E che però riaffiora oggi, a tre mesi esatti dalla mattina di febbraio in cui il «Celeste» si presentò alle porte del carcere milanese per scontare la sua condanna per corruzione.
A presentare a Formigoni la stratosferica richiesta di risarcimento è la Corte dei Conti della Lombardia. Che gli iperpagati magistrati della Corte siano degli stakanovisti non si può dire, visto che sui loro tavoli languono da anni storie delicate di malversazioni pubbliche. Ma nei confronti dell'ex presidente della Lombardia i magistrati contabili sono andati a spron battuto. La condanna definitiva di Formigoni è del 21 febbraio, ieri in pubblica udienza viene avanzata la richiesta di sequestro dei beni a carico del condannato. L'importo di sessanta milioni corrisponde, secondo l'accusa, ad una parte dei finanziamenti illeciti che la Regione Lombardia avrebbe erogato alla Fondazione Maugeri, uno dei due colossi della sanità privata - l'altro era il San Raffaele - che secondo la Procura avrebbero beneficiato delle delibere su misura volute da Formigoni. Si tratta della parte che secondo le indagini (e le tre sentenze) sarebbe tornata dalla Maugeri nelle mani di Piero Daccò e Antonio Simone, i due lobbisti che si muovevano nella sanità lombarda, condannati come complici di Formigoni.
A rendere un po' surreale la mossa della Corte dei Conti c'è un dettaglio non irrilevante: i sessanta milioni sono esattamente gli stessi sessanta milioni che sono già stati sequestrati dalla Procura della Repubblica, nel corso del procedimento penale, e di cui già allora non si era trovata traccia. Adesso la magistratura contabile ci prova anche lei: di fatto, due magistrature si contendono un tesoro inesistente, di cui - nonostante indagini ultra approfondite e rogatorie in mezzo mondo - non si è trovato un nichelino, così a Formigoni hanno finito col sequestrare solo due auto e un pezzo di casa dei genitori. D'altronde la stessa teoria dell'accusa non ipotizza che Formigoni abbia accumulato ricchezze in qualche angolo del pianeta: all'ex senatore vengono contestate una serie di «utilità» ricevute da Simone e Daccò, solo in minima parte consistenti in denaro contante, e per il resto percepite in natura, tra vacanze spesate, cene di lusso, operazioni a prezzo di favore. Soldi ormai spesi, e di cui il sequestro è materialmente impossibile: e comunque per importi assai lontani dai sette zeri ipotizzati dalla Corte.
Oltretutto, nel corso della udienza di ieri, il difensore di Formigoni ha fatto presente come la Corte dei Conti arrivi fuori tempo massimo: i tempi di prescrizione sono ormai ampiamente superati, bisognava svegliarsi prima.
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