
Dopo l'intesa tra Washington e Tokyo, era difficile immaginare che i negoziati tra Usa e Ue trovassero un punto di atterraggio differente. E indubbiamente l'intesa stretta ieri va a ridurre l'incertezza che si è protratta per mesi. Carlo Altomonte, professore di Politica economica europea alla Bocconi, analizza i riflessi per l'Europa di dazi al 15%.
Alla luce dell'intesa tra Tokyo e Washington era difficile aspettarsi di meglio?
"Era impossibile immaginarsi che finisse diversamente, anche perché Tokyo ha un deficit commerciale verso gli Stati Uniti inferiore rispetto al nostro. Quindi questo accordo con dazi al 15% è nell'ordine delle cose. I mercati non penso reagiranno male, anzi; il vero nemico è l'incertezza e questo accordo toglie una grande incognita".
L'Europa ha dovuto mettere in campo meno contropartite del previsto.
"Gli Stati Uniti chiedevano maggiore accesso al mercato sulle piattaforme digitali, minori regole, minori tassazioni che sono temi sui quali la Commissione Europea difficilmente poteva mollare. Alla fine, l'Ue ha messo sul piatto accordi energetici e maxi-investimenti negli Usa. Essendo noi europei importatori netti dei servizi digitali a stelle e strisce, questa può essere stata un'importante arma negoziale usata da Bruxelles che probabilmente avrà ventilato tra le possibili ritorsioni anche l'imposizione di restrizioni sul digitale".
Acquisti di energia e maxi-investimenti negli Usa, concessioni ampiamente preventivate.
"Già durante il primo mandato di Trump l'accordo era stato chiuso con acquisto di maggiore gas Gnl americano, che è molto caro quindi bisogna capire a che prezzo ce lo venderanno. Sui 600 miliardi di investimenti non vedo invece problemi. L'Europa e gli Stati Uniti hanno il più forte legame bilaterale al mondo in termini di investimenti esteri. Diverse aziende europee avevano già detto che con dazi al 15% diventava più conveniente andare a produrre direttamente oltreoceano; quindi, questo accordo fa l'interesse americano e anche quello europeo di non perdere questo accesso al mercato".
Le aziende hanno gli antidoti per attutire il colpo?
"Tariffe al 15% non sono affatto basse e a queste va aggiunto il 12% di svalutazione del dollaro che probabilmente tra un anno sarà ancora di più, non escluderei un altro 10% considerando che la Federal Reserve post Powell muoverà al ribasso sui tassi. Quindi si tratta di impatti non certo secondari per chi esporta negli Usa".
Come controbilanciare tali impatti sull'export?
"Bisogna giocoforza ragionare in termini di differenziazione su altri mercati, mentre quello americano può essere servito dalla produzione diretta. A tal riguardo sarebbe un errore grave se usassimo risorse pubbliche per compensare le imprese italiane nelle esportazioni verso gli Stati Uniti. Dobbiamo usare risorse pubbliche per consentire alle aziende italiane di migliorare la diversificazione del proprio export. Ci sono diversi modi per andare in altri paesi quali voucher per le fiere o l'export manager che funziona molto bene per le medie e piccole imprese".
Ha accennato al mini-dollaro, un problema non da poco.
"Si tratta di politiche deflattive per l'Europa e inflattive per gli Usa, i dazi rischiano quindi di rafforzare in maniera importante l'euro peggiorando il saldo di esportazione.
Come Ue dobbiamo smetterla di crescere attraverso esportazioni e Trump sta accelerando questo cambio di paradigma; l'Europa adesso deve fare i compiti a casa e quando magari l'euro andrà verso 1,40 si sentirà ancora di più il senso di emergenza. L'agenda ce l'abbiamo, è quella dell'ex premier Mario Draghi".