U no, ce ne fosse stato uno. Uno solo degli inviati piombati nelle brume del delta del Po alla caccia dei presunti razzisti di Gorino, che si fosse preso la briga di fare la cosa in fondo più semplice di tutte: andare su Internet e scoprire come avevano votato questi pescatori di vongole tagliati fuori dal mondo, pronti a erigere barricate contro donne e bambini. E avrebbe scoperto di non essere in un covo della Lega né in un'enclave di Forza Nuova ma in un lembo dell'Italia progressista, dove alle ultime europee il Pd era primo per distacco, i grillini erano alla pari con Forza Italia, e quella Lega oggi accusata di essere l'anima nera della rivolta era ferma al sette per cento.
Certo, se si fossero andati a vedere i risultati elettorali sarebbe stato un po' più complicato scaricare sugli abitanti di Gorino il razzismo dell'antirazzismo, le vignette insultanti, i commenti al vetriolo come quello di Pierfrancesco Majorino, assessore al Welfare milanese, «mi domando se la mattina riescano a guardarsi allo specchio». Sarebbe stato più problematico trattare il paese come un villaggio di gozzuti, colpevoli di bere ancora il Biancosarti e lo Stock 84, diventati nei reportage chissà perché simbolo di arretratezza culturale e politica. E sarebbe forse risultata più grottesca la campagna che prende via ieri, «non comprate più le vongole di Goro»: che invoca una sorta di rappresaglia generalizzata, deve pagare le conseguenze del blocco anche chi non era in piazza a bloccare il pullman, perché è comunque colpevole. «Voi fate parte di questa comunità, quindi ne dovete soffrire le responsabilità; me ne dispiace», scrive un tizio alla cooperativa dei pescatori annunciando il boicottaggio.
Ci prova, nel suo editoriale su Repubblica, l'ex direttore Ezio Mauro, a scavare nel profondo del dramma di Gorino, senza anatemi, parlando della «solitudine dell'indigeno italiano». Ma è una voce che predica nel deserto di una indignazione pressapochista, dove l'importante è scandalizzarsi più che capire. E anche qui l'insulto piomba sull'intera popolazione e sul paese stesso, «chiudete Goro che arriva puzza di m...», è la vignetta di Vauro. «I profughi pensano che l'Italia sia un Paese civile, poi invece li portano a Gorino», gli fa eco la sua collega Ellekappa.
Le donne e i bambini cacciati da Goro non potevano essere una minaccia per nessuno: ma capire come un piccolo gruppo di disperati sia diventato, nell'immaginario della gente del posto, l'avanguardia dell'invasione interessa a pochi. «Fascisti schifosi», vengono definiti su Twitter; e per descriverli si ripubblicano le immagini del Ku Klux Klan. «Io non sono vostro fratello», manda a dire alla gente di Goro il deputato del Pd Emanuele Fiano. «Vergogna, questa è l'unica parola che posso dire», tuona da Palermo il sindaco Leoluca Orlando.
Certo, nell'agitarsi dei social network c'è anche chi la pensa diversamente, e inevitabilmente anche chi sbarella nel senso opposto, esaltando le barricate di Gorino come il segnale di una resistenza all'invasione, e non di un tragico scontro tra ultimi e penultimi. Ma a fare la voce più grossa sono i pasdaran del politicamente corretto: «Schiatta nella tua melma», è l'augurio al sindaco (democratico) di Goro, colpevole di voler accogliere i migranti ma di voler scegliere il posto.
E così via, in una gara a chi insulta più forte: come per esorcizzare paure e violenze che non sono di Goro ma dell'Italia profonda. Forse, persino di chi dal caldo dell'ufficio e del tinello, ieri si sfoga contro i razzisti di Goro e di Gorino, e quel paese di m... tra la pianura e il mare.
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