"Così li condannai in un Paese diviso in due"

La toga dell'omicidio Calabresi: "La stampa di sinistra stava con gli imputati"

"Così li condannai in un Paese diviso in due"

«Me lo ricordo bene, Giorgio Pietrostefani». Sono passati più di trent'anni, e il primo giudice che condannò i dirigenti di Lotta Continua per l'omicidio Calabresi sta per andare in pensione («non metta il mio nome, non è importante»). Fu lui nel 1990, dopo un processo durato sei mesi e una camera di consiglio di una settimana, a scrivere la sentenza che inchiodava i responsabili dell'assassinio del commissario: l'esecutore Bompressi, il mandante Sofri, e poi lui, Pietrostefani, il capo del servizio d'ordine di Lc.

«Erano a piede libero, venivano in aula quasi a tutte le udienze. Sofri era tutto cultura, il vero leader. Pietrostefani era un silenzioso. Le prove dimostravano che era lui il responsabile militare dell'organizzazione, il capo della struttura clandestina che organizzava le rapine e l'addestramento con le armi. E che era stato lui, in un cinema, a proporre a Marino di partecipare all'azione contro Calabresi». Leonardo Marino, il militante di base che guidò l'auto del killer: e che sedici anni dopo fece arrestare tutti.

Ora che Pietrostefani sta per iniziare a pagare il conto, il suo primo giudice non mostra tentennamenti: «Fu una sentenza sofferta, ma alla fine sia noi che i giudici popolari raggiungemmo la certezza. Erano stati loro. Non erano gli unici a portare la responsabilità dell'omicidio. La decisione era stata presa dall'esecutivo nazionale di Lotta Continua, unico contrario Marco Boato. Ma incriminare in blocco l'esecutivo era impossibile». Molti dei suoi membri, sedici anni dopo occupavano posti importanti nelle professioni e nei media. E questo fece sì che la battaglia innocentista fosse furibonda.

«Ci trovammo a celebrare un processo con il paese spaccato in due e la stampa schierata su fronti avversi. C'era il Giornale di Montanelli che sosteneva apertamente l'inchiesta della Procura, i giornali di centro che si barcamenavano. E quelli di sinistra schierati in blocco con gli imputati. Soprattutto Repubblica, dove Sandra Bonsanti conduceva una campagna incessante in loro favore».

Molti dei compagni di un tempo, ricorda il giudice, sfilarono in aula come testimoni a difesa. «Accaddero cose singolari. La tesi difensiva era che Sofri non poteva avere dato il via libera a Marino durante un comizio a Pisa perché pioveva ed era andato via subito. Vennero in tanti ex di Lotta Continua, come Giovanni De Luna ed Enrico Deaglio, a descrivere sotto giuramento un corteo che da un certo momento si era svolto secondo loro sotto una pioggia battente. Poi saltò fuori che il corteo non c'era mai stato. Quella fu una delle due svolte del processo».

E l'altra? «L'altra riguarda direttamente Pietrostefani e il suo ruolo nella struttura occulta di Lotta Continua. Il pentito Marino aveva parlato di una cascina dove i militanti del servizio d'ordine andavano per imparare a usare le armi da fuoco. Fantasie di Marino, diceva la difesa. La cascina venne trovata, era Biandrate. Venne in aula il proprietario e gli chiedemmo: trovò tracce di qualcosa? E lui: sì, nei muri c'erano i buchi delle pallottole!».

Sul perché Pietrostefani e Sofri vollero la morte di Calabresi, in quei sei mesi di processo il giudice si è fatta un'idea precisa. «Il ruolo di Calabresi nella morte dell'anarchico Pinelli c'entra fino a un certo punto.

Il problema è che Calabresi era un simbolo, e i capi di Lotta Continua erano convinti che uccidendolo avrebbero conquistato la leadership dei movimenti della contestazione».

Marketing rivoluzionario, e ci rimise la pelle un brav'uomo.

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