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Il cronista che raccontava la vita grazie alla morte

Va in pensione Weber, specializzato in "obituary": al New York Times lascia 50 coccodrilli

Il cronista che raccontava la vita grazie alla morte

Pezzi di nicchia, ma molto letti. Sono i necrologi. Il cronista della morte, quello che ha il potere di dare giudizi definitivi su una persona speciale esiste in tutte le redazioni dei giornali. Per questo tipo di redattore il mondo si divide in due categorie: i morti e quelli che, probabilmente, lo saranno presto. Così, o si scrive di coloro che muoiono, e in fretta. Oppure, nei ritagli di tempo, ci si porta avanti con i «coccodrilli», aggiornando ciascun file delle persone di cui è il caso di avere pronta un'accurata biografia prima che succeda l'irreparabile. Attualmente l'archivio del New York Times dispone dei file di circa 1.700 persone più o meno celebri, alcuni di questi pezzi sono opera di Bruce Weber, un'istituzione americana. Ha scritto il diario della sua bicicletta attraverso gli Stati Uniti e un best-seller, La vita è una Ruota. Dopo otto anni di militanza nel settore Obituaries per Bruce è arrivato il giorno di andare in pensione. La pagina sulla inaspettata scomparsa di Bobby Hutcherson, gigante dell'etichetta Blue Note, il più importante vibrafonista della storia del jazz, sarà trattata dai colleghi Douglas Martin e Paul Vitello. Un onore. Bruce deve celebrare il giorno dell'addio. E lo fa nel miglior modo possibile, raccontando un tipo di giornalismo che, contrariamente a quanto si possa pensare, non «si occupa della morte, ma della vita».

«La notizia è sempre la stessa, la morte - scrive nell'addio ai lettori-. Ma la storia in queste righe si fa andando a ritroso nel tempo per scovare grandi cose, emozioni che la gente deve provare leggendo. E le soddisfazioni non mancano, perché facendo le nostre ricerche spesso ci imbattiamo in fatti interessanti e dimenticati da tempo». Racconta: «È piuttosto facile prevedere decessi di persone anziane, ma il nostro giornale, come altri, ultimamente è stata spiazzato da morti improvvise come quelle di David Bowie, Philip Seymour Hoffman e, nonostante avesse giocato ripetutamente con la morte, Amy Winehouse». Bruce dice di non temere la morte. «Col lavoro che ho fatto è come se non la temessi più tanto. Tutti dobbiamo morire, ma il nostro giornale è diventata un'isola felice nel giornalismo americano, da noi una vita degna viene riconosciuta come tale. Ma se è veramente degna lo sappiamo solo noi. Fonti speciali». Non c'è solo la star nelle loro pagine. «Mi sono occupato di persone che potrebbero non essere così importanti a livello popolare. A me basta che abbiano fatto qualcosa di speciale. Mi colpiscono le persone che hanno cambiato il nostro modo di vivere». Ma il suo è anche un lavoro malinconico. Basterebbero le lunghe interviste al telefono con i parenti del morto («necessarie e, molto spesso, passate a consolare persone che speravano di trovare in me qualcuno in grado di capire la loro angoscia e non solo un approfittatore»).

«Non è un giornalismo avventuroso - ammette Weber-. Ma sicuramente un lavoro importante. Visto che si tratta, in fin dei conti, di dare un giudizio pubblico sulla vita terrena di una persona e su quello che vale la pena ricordare di lui. Un parere che a volte può dare fastidio ai parenti del morto ed è qualcosa da tenere a mente. «Perché il giornalismo non è una professione al servizio di una persona particolare, ma scrivere necrologi invece, pur mantenendo la propria integrità professionale, può esserlo. O forse dovrebbe esserlo. Farlo bene è difficile. Farlo male può causare ulteriore dolore a chi sta già soffrendo molto». I suoi articoli basteranno ancora per un po' di tempo. Nell'archivio del Nyt lascia oltre 50 coccodrilli. «Qualcuno sarà pubblicato dopo la mia morte», scherza.

Nel mucchio, magari, c'è anche il suo.

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