Anche il Nobel della chimica, dopo quello della fisica e della medicina: uno e trino. Il bernoccolo che porta alle grandi scoperte è l'insieme di tre bernoccoli. Non può essere una coincidenza. Forse questa constatazione è tutt'altro che scoperta da premio Nobel, forse è una scoperta dell'America, ma s'impone: come direbbero i mister moderni uscendo da Coverciano, c'è sempre la vittoria del collettivo. Anche nella grande ricerca. E il singolo? Il singolo ha senso soltanto se si mette al servizio della squadra. Se gioca da solo, non va da nessuna parte. Addio singolo. È stato bello, ma in questo mondo di individualismo estremo, non c'è più posto per l'individualità. Si gioca all'olandese.
Visto dal di fuori, il fenomeno è ben singolare. Vincono il Nobel in tre, ma nemmeno si frequentano. O quasi. A parte i coniugi norvegesi della medicina ormai più famosi dei Curie, questi due signori che condividono casa e laboratorio da quasi quarant'anni, loro certo molto prossimi e affini, gli altri si affiancano a chilometri e chilometri di distanza. Gli stessi coniugi norvegesi hanno vinto assieme a un collega anglo-americano che lavora a Londra. Quelli della fisica sono tutti e tre di origine giapponese, ma due lavorano in patria e uno in California. Quanto a questi ultimi tre della chimica, due lavorano in due università diverse degli States, uno in Germania. È un sistema inevitabilmente e innegabilmente attuale: nell'era di Internet, si può lavorare fianco a fianco, come compagni di banco, anche in continenti diversi. È già paleolitico il tempo in cui Marconi e Bell facevano corsa personalissima e nascosta in due stanze remotissime. Allora sì era tutto un altro gioco, basato sull'estro e sulle intuizioni del fenomeno, con questi Maradona della scienza capaci certo di trascinare una squadra, ma senza che nessuno in squadra sapesse o osasse fare ombra. La squadra al servizio del singolo. Senza schemi, affidandosi all'improvvisazione.
Possiamo dirlo tranquillamente, anche a costo di scomporre i compassati membri dell'Accademia: i Nobel di oggi sono segni dei tempi. Di questi tempi in cui bisogna sempre e ovunque fare sistema, fare squadra, fare collettivo, sacrificando le capacità individuali al disegno comune. È l'essenza stessa della globalizzazione: annullare tutte le possibilità di andarsene per la tangente, mettendo l'intera umanità in fila dietro gli stessi valori e gli stessi schemi. Lo dice anche il bravo mister, martellando i suoi nelle sedute tattiche: ognuno deve avere ben chiaro il proprio compito, ciascuno deve coprire la propria zona, ma tutti quanti devono mettersi al servizio della squadra. Senza squadra non si va da nessuna parte. E se proprio Totti ancora non si rassegna a smettere, lo tolleriamo come l'ultimo dei mohicani. Come un panda in via d'estinzione. Ma i giovani non si mettano in testa di fare come lui, che gioca di tacco e tira quando gli pare. Quella stagione, quel modo di giocare, quel sistema filosofico sono definitivamente chiusi. E nessuno si faccia strane illusioni.
La metafora sportiva è certo acrobatica. Ma tutto sommato neanche tanto. La scuola stessa, il mondo aziendale, la geopolitica: tutti gli ambiti hanno ristretto drasticamente gli spazi all'iniziativa individuale, sublimando come valori assoluti l'etica e l'estetica collettive. Che questo avvenga anche nella galassia scientifica è del tutto naturale, ma nessuno può negare un certo retrogusto malinconico.
Guardiamo questi nuovi cervelloni che si avviano sul palco del Nobel a comitive e inevitabilmente emerge un po' di rimpianto per un altro tempo, quando un giovane neppure tanto acuto a scuola sapeva liberare la sua passione e il suo talento fino al punto d'essere Einstein. Applaudiamo i Nobel di squadra e fatalmente ci poniamo una domanda niente affatto cretina: ci sarebbe posto, oggi, per Einstein?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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