"Le democrazie sono solide se possono appoggiarsi su una classe media stabile"

Lo scienziato politico, Gianfranco Pasquino, spiega: "Esistono gruppi sociali che nella società di oggi si sono scollegati. Questo provoca fragilità"

"Le democrazie sono solide se possono appoggiarsi su una classe media stabile"
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Gianfranco Pasquino, classe 1942, è professore emerito di Scienze politiche all'Università di Bologna, dal 2005 è socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Le sue pubblicazioni sono numerosissime e hanno spaziato in moltissimi ambiti della politologia. Abbiamo dialogato con lui sul tema delle classi medie, anche a partire dai dati che abbiamo pubblicato ieri sul ceto medio italiano.

Professor Pasquino, cos'è il ceto medio?

«Il ceto medio sta a metà. Se guardiamo alla storia era quel ceto posizionato tra le aristocrazie e il proletariato. Più in generale comprende quella fascia di persone che si pongono in un ambito lavorativo in cui il lavoro non è quasi mai manuale e si pongono in una via mezzana per quanto riguarda il reddito. Sono un'ampia fascia di persone che fa da collante tra l'alto e il basso di una società. Si tratta di persone rese autosufficienti dall'attività che compiono, anche se questa attività non le rende ricche. Conta anche il fatto che abbiano un livello di istruzione di un certo tipo, che si presta a queste attività».

Si avvicina al ceto medio anche l'aristocrazia operaia?

«Sì, quando l'auto definizione lo consente. A volte l'aristocrazia operaia preferisce pensarsi come aristocrazia, seppur operaia. C'è un discrimine».

È importante per le democrazie che il ceto medio sia solido?

«Non è detto che una democrazia prenda le mosse dal ceto medio ma sicuramente si rafforza se il ceto medio è ampio. Il ceto medio diciamo è quello che porta sulle spalle la democrazia. Le aristocrazie, uso il termine in senso largo, non è scontato abbiano interesse nella democrazia, e le classi popolari spesso non hanno la forza per produrre la democrazia, anche se possono avere quella che serve per una rivoluzione. E quindi si dice che più è robusto il ceto medio, più una democrazia può prosperare».

Questo ceto che si autodefinisce «medio» in molti Paesi occidentali si sente minacciato? Lo è?

«È una questione che in parte riguarda il potere d'acquisto. Ma riguarda anche una sensazione di proletarizzazione, di perdita di rilevanza sociale... E se questo accade può svilupparsi un sentimento di distacco dalla democrazia. È già capitato negli anni '20 e '30 del Novecento e ha portato verso le dittature come il nazismo...».

Ma la sfida al ceto medio e quindi in un certo senso alle democrazie da dove arriva?

«Il ceto medio teme di essere fagocitato dal basso e questa è una cosa. La minaccia alle democrazie però viene secondo me quasi sempre dall'alto, quando le classi superiori manipolano il ceto medio o se ne allontanano».

Cosa deve fare il ceto medio per mantenere rilevanza?

«Trova la sua naturale rappresentanza nei partiti di centro, se questi partiti si sgretolano la perdita di rappresentanza è inevitabile, per come la vedo io. Il populismo non li aiuta».

Ceto medio o ceti medi?

«C'è un ceto medio di dipendenti dello Stato, un ceto medio di operatori economici e sociali e poi c'è un ceto medio alto che sta perdendo identità... Faticano a darsi un'identità comune».

Quando però l'ascensore sociale funziona bene il ceto medio si ricompatta...

«Non è una garanzia ma certo garantisce una coesione dinamica e spinge il ceto medio ad accettare le sfide».

Il ceto medio credeva nella forza dell'educazione, ora sembra essere più orientato verso il «mito dell'altrove»...

«È una domanda difficile...

serpeggia una sfiducia sulla possibilità di migliorare con la cultura la propria condizione. E c'è un fatto, le società sono più strutturate e c'è meno spazio per crescere, è una sfida complessa. I più ambiziosi possono scegliere di andarsene e questo ci rende più fragili».

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