Il destino della filiera Ue

Non è detto che la strada per Trump sia in discesa. Il presidente Usa è convinto di poter dettare al mondo la propria linea, come se fosse scontato che tutti accettino le regole americane

Il destino della filiera Ue
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Il timing non è casuale. L'annuncio dei dazi americani al 30% sull'import europeo piomba sul tavolo proprio a poche settimane dal vertice Ue-Cina. Un colpo da giocatore d'azzardo che, con una sola mossa, ribalta il tavolo e costringe tutti a scoprire le carte. Washington, oggi, non ha la pazienza per i sofismi diplomatici: pretende dagli alleati una scelta netta. O con noi, o con Pechino. La richiesta è scomoda, scomodissima. Per tutti, anche per noi, perché in ultima analisi costringe a esprimerci sul nostro ruolo strategico, sugli interessi e sulle priorità. Ma quale Paese europeo è pronto a dichiarare la Cina quale suo nemico? Con la Russia era (relativamente) facile, con Pechino ha ben altre conseguenze. Basta pensare al controllo cinese del comparto delle materie prime. Ma il tempo sembra oramai esaurito. A occhi di Washington, o la Ue si allinea strategicamente agli Stati Uniti, e prende una posizione netta nella Guerra Fredda 2.0, oppure rischia di vedersi sbarrato l'accesso al mercato Usa. E non si parla solo di acciaio o alluminio, ma di intere filiere industriali che potrebbero vedersi chiudere i mercati più redditizi, fatta forse eccezione per il lusso e qualche prodotto alimentare di nicchia. E se tutto ciò non fosse abbastanza, Washington non avrebbe alcuna esitazione a mettere mano anche ai canali finanziari, attraverso la restrizione delle swap line della Federal Reserve. Non è propaganda: è il linguaggio spiccio di chi ha deciso di plasmare il mondo secondo il proprio disegno. L'obiettivo americano è ormai cristallino: trasformare l'industria europea in una grande filiera al servizio di quella americana in chiave anti cinese. Una riserva di fornitori da cui attingere ciò che gli Usa non producono o non producono al livello qualitativo europeo. Tutto sembra insomma costruito al fine di creare dipendenza soprattutto in ambito militare. Il libero commercio? Materia da professori da salotto. Nella realtà, le catene del valore sono ostaggio della geopolitica.

Non è detto che la strada per Trump sia in discesa. Il presidente Usa è convinto di poter dettare al mondo la propria linea, come se fosse scontato che tutti accettino le regole americane. Forse sopravvaluta se stesso, e le capacità degli Stati Uniti di imporre il loro modello. Eppure, finora, a Trump è andata meglio di quanto molti si aspettassero. Il TACO l'acronimo con cui il Financial Times ha schernito l'inquilino della Casa Bianca sta diventando indigesto a mezzo mondo. Gli accordi commerciali siglati con il Regno Unito e il Vietnam lo dimostrano: entrambi i Paesi hanno accettato di mettere le proprie filiere a disposizione di Washington allentando i rapporti con Pechino. Non va sottovalutato il passo recente del Messico, che ha deciso di allinearsi al Canada e introdurre a sua volta un dazio del 30% sui beni extra-USMCA, puntellando così il progetto americano di costruire la "Fortezza America".

Gli Stati Uniti stanno accumulando metallo come mai prima, nel tentativo di bilanciare lo stoccaggio strategico messo in piedi da Pechino negli ultimi anni. Oltre ai dazi già noti su acciaio, alluminio o rame, è solo questione di tempo prima che arrivino misure su platino, palladio, nichel, zinco, stagno e cobalto. Washington, insomma, sta ripulendo il campo delle materie prime assieme ai cinesi, lasciando all'Europa solo le briciole. Ma quale sarebbe, allora, l'alternativa per l'Europa? Creare un asse tra tutti i Paesi colpiti dalla politica commerciale Usa e indurlo a più miti consigli? Sarebbe probabilmente inutile perché, se Washington fallisse nell'obiettivo di creare un blocco industriale allineato ai suoi interessi, si chiuderebbe nell'isolazionismo, alimentando la situazione di caos e frammentazione a livello globale. Oppure, bussare alla porta di Pechino, seppellendo una volta per tutte la nostra industria? L'Europa deve perseguire la terza via di autonomia strategica, è il leitmotiv che si sente ripetere da mesi.

Benissimo, ma come prima cosa cestinare le politiche climatiche, dotare la Bce della

funzione di prestatrice di ultima istanza, intraprendere una politica industriale fatta di dazi e sussidi che crei nuove filiere europee, nonché avviare una proiezione geostrategica sull'Africa.

Siamo pronti a far questo?

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