La difesa del cibo italiano. Pure a tavola si fa politica

Il dibattito torna ad accendersi dopo l'«assalto» di Starbucks all'espresso. Ma è una guerra utile?

La difesa del cibo italiano. Pure a tavola si fa politica

Che cos'hanno in comune un caffè americano e un barcone carico di migranti? Niente. O forse molto. Almeno in Italia. Almeno adesso.

Entrambi sono argomenti che chiamano gli italiani alle armi, li spingono a schierarsi. Chi da una parte della trincea, chi dall'altra. Ma se il tema dell'accoglienza - anzi della non accoglienza - diventato il cavallo di battaglia su cui ha costruito le sue fortune politiche Matteo Salvini e la Lega non più solo padana è argomento serio, da cui dipendono vite umane nonché il futuro dell'Italia e dell'Europa tutta, il caffè fino a qualche tempo fa era tema leggero, buono al massimo per qualche scorribanda campanilistica. Un argomento da bar, appunto.

Eppure l'apertura del primo negozio Starbucks in piazza Cordusio a Milano qualche giorno fa, celebrato con una pompa da royal wedding (Carlo Cracco era lì a prendere appunti) si è trasformato in un evento politico oltreché organolettico e mondano. Perché ha scatenato i ribollenti spiriti polemici dei pro e dei contro più o meno come fanno le politiche dell'accoglienza. Con la differenza che in quest'ultimo caso si può essere tacciati di razzismo e nel caso del caffè gli intransigenti fanno esercizio di «tazzismo».

Esiste un sovranismo gastronomico? Parrebbe proprio di sì. Sentite che cosa si è detto sul vernissage italiano della multinazionale di Seattle, venuto a «rubare in casa dei ladri». «Due ore di coda per un caffè da Starbucks? Ma nemmeno se mi pagano! Non ho parole», ha twittato Salvini che preferisce (sic) prosciutto, salame e mortadella (auguri). «Mi chiedo come si faccia a preferire le loro bevande al nostro caffè espresso invidiato in tutto il mondo», ha aggiunto la sovranista cacio&pepe Giorgia Meloni. Casapound da parte sua non si è espressa in occasione dell'apertura della «roastery» meneghina ma lo aveva fatto chiaramente mesi fa quando Starbucks aveva sponsorizzato la piantumazione di decine di palme in piazza Duomo: «No all'africanizzazione di Milano», avevano urlato i fascisti del terzo millennio.

Ma qui - si dirà - siamo in piene terre sovraniste. E allora spostiamoci altrove. Per accorgersi che a difesa dell'italico espresso si sono schierati anche sinceri progressisti come Aldo Cazzullo, giornalista del Corriere della Sera sempre così politicamente corretto (come il caffè), che mese fa, quando già lo sbarco italiano della sirena americana era cosa nota, scrisse: «L'apertura in Italia di Starbucks come italiano la considero un'umiliazione». E perfino Federico Rampini, corrispondente dagli Usa di Repubblica con il celebrity kit del veterocomunista (erre moscia e residenza a New York comprese), qualche settimana fa se la prese con la ciofeca lunga nel bicchiere di polistirolo: «Spero che i consumatori italiani non caschino nella trappola di Starbucks». E ancora: «In Italia non c'è ragione che abbia successo». A giudicare dalle lunghe file che ancora ieri c'erano in piazza Cordusio per entrare nell'ex palazzo delle poste a sbirciare come si fa un caffè con il Chemex, diremmo che Rampini ha puntato sul cavallo sbagliato pure stavolta. Del resto anche Cassandra beveva caffè filtro.

Esiste quindi un sovranismo del cibo? Esiste una propensione alla difesa dei propri confini del gusto che vada al di là del campanilismo da agnolotto contro tortellino? Secondo noi sì.

È un bene o un male? Secondo noi un male perché non è battendo il Chieco che si diventa campioni del mondo ma sfidando il Real Madrid.

Ma certamente molti tra chi leggono queste noterelle non saranno d'accordo.

Una cosa è certa: quando la prossima volta qualcuno criticherà chi scrive perché va in giro tronfio con il suo bibitone di caffè oversize, risponderemo fieri: «Tazzista!».

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