Le dimissioni di Occhiuto una lezione di democrazia

Sull'amministrazione calabrese come su quella milanese pendono procedimenti giudiziari assai diversi nella natura delle ipotesi contestate, ma drammaticamente simili nella narrazione che li accompagna

Le dimissioni di Occhiuto una lezione di democrazia
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È accaduto questa settimana, nel silenzio imbarazzato del dibattito pubblico, che la Calabria abbia dato una lezione di democrazia alla più moderna e colta Lombardia. Il governatore Roberto Occhiuto, raggiunto da un'inchiesta della magistratura, ha scelto di dimettersi e restituire la parola ai cittadini, chiedendo che siano loro, e non i pubblici ministeri, a giudicare la sua azione politica e i risultati raggiunti nei primi anni di mandato. Un gesto raro, coraggioso, e per questo rivoluzionario.

Sull'amministrazione calabrese come su quella milanese pendono procedimenti giudiziari assai diversi nella natura delle ipotesi contestate, ma drammaticamente simili nella narrazione che li accompagna e negli effetti che producono nel sistema politico-mediatico. In entrambi i casi, infatti, si parte da un'indagine penale, ancora lontana da qualsiasi verdetto, e si approda rapidamente a un processo parallelo: quello contro un modello politico, una visione amministrativa, uno stile di governo.

La procedura penale si fa dibattito pubblico. E i magistrati, loro malgrado o forse no, finiscono per vestire i panni dei nuovi giudici morali della Repubblica. Ogni inchiesta, oltre ai suoi capi d'imputazione, porta con sé un sottotesto etico, una glossa morale non scritta nei codici ma ben leggibile nei faldoni: comportamenti letti alla luce del peccato più che del diritto, intenzioni desunte da mezze frasi intercettate, ricostruzioni cucite da occhi indiscreti e penne compiacenti.

È il trionfo del moralismo sulla legalità, della suggestione sulla prova, del sospetto sulla responsabilità politica. Ed è in questo scenario che il gesto di Occhiuto assume un valore simbolico di portata nazionale. Dimettendosi, non si è sottratto a un presunto gioco al massacro: ha invece ricordato al Paese che il giudice naturale della politica è il cittadino. Che solo le urne, e non le aule di tribunale, hanno il potere di convalidare o smentire una visione di governo. E che se davvero la politica vuole ritrovare la propria dignità, deve reclamare con forza la propria autonomia.

Quanta differenza con il dibattito che attraversa in questi giorni Milano, dove una maggioranza politicamente balbettante guarda caso di sinistra sembra aver smarrito ogni eredità nobile del proprio passato, conservando invece tutti i peggiori difetti della sua tradizione. È svanito il primato della politica, quella supremazia del mandato democratico che un tempo rappresentava il cuore pulsante di ogni movimento progressista, da Turati a Berlinguer. È affiorato invece il consueto doppiopesismo che porta a difendere il candidato Ricci, indagato ma benedetto dalla segreteria del Pd, e al tempo stesso a lasciare il sindaco Sala solo, esposto alla gogna dei titoli di giornale e al silenzio imbarazzato dei suoi alleati.

Eppure, se esiste un "modello" che la sinistra avrebbe dovuto difendere senza esitazione non per proteggere gli individui ma per rivendicare una traiettoria amministrativa è proprio il modello Milano. Non certo quello di Pesaro, con tutto il rispetto per la città adriatica. Ma nella capitale economica del Paese oggi sembra che a dettare l'agenda politica non sia il Consiglio comunale, né la cittadinanza attiva, bensì le carte delle Procure, lette e interpretate come romanzi gotici da opinionisti e investigatori improvvisati.

Lasciamo da parte l'inchiesta, che merita rispetto e discrezione, anche se ci si interroga sull'opportunità di arresti cautelari in pieno agosto per ipotesi ancora da dimostrare. Il problema più grave è la resa della politica. Possibile che la trasformazione urbanistica più profonda e organica d'Europa dai grattacieli di CityLife a Porta Nuova, dal metrò che collega Linate alle infrastrutture per le Olimpiadi non abbia alcun difensore? Possibile che tutto ciò sia affidato alla malizia di una perizia tecnica o al sospetto indotto da una frase rubata?

Se la politica tace, se rinuncia a raccontare la propria visione, se abdica alla propria funzione, allora tutto è perduto. La magistratura farà il suo corso. Ma intanto, chi racconterà la storia vera di Milano? Chi ne rivendicherà i traguardi, i difetti, le contraddizioni ma anche l'ambizione?

Il sindaco Sala ha ora davanti a sé un bivio. Può scegliere il silenzio, e lasciare che siano altri a decidere il futuro della città. Oppure può fare come Occhiuto: restituire la parola alla politica, non per difendere gli indagati, ma per affermare un modello.

Dopo nove anni di governo, o si scende in campo a testa alta per dire ai cittadini ciò che è stato fatto e ciò che si vuole ancora fare oppure si accetta che il giudizio arrivi non dalle urne, ma dai buchi della serratura.

In un tempo in cui la politica si giudica più per le ombre che per la luce, difendere la propria visione, con coerenza e orgoglio, è il solo atto rivoluzionario rimasto.

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