Donald e la «questione russa»: l'ombra di Putin agita la Casa Bianca

L'intelligence Usa indaga da un anno sulla Russian connection Per questo il consigliere Michael Flynn è stato allontanato

di Paolo Guzzanti

Il centro dello scontro politico negli Stati Uniti è diventato la questione russa. Abbiamo già visto cadere la testa del generale in pensione ex consigliere per la sicurezza nazionale - Michael Flynn, licenziato dopo settimane di tormenti per aver mentito al vicepresidente Pence sui suoi rapporti con l'ambasciatore russo quando Obama impose sanzioni a Mosca per supposto hackeraggio del partito democratico. Adesso si scopre che tutte le agenzie di spionaggio e in più l'Fbi che svolge un servizio soltanto interno, da un anno a questa parte non fanno che raccogliere dossier su incontri, telefonate e contatti fra Donald Trump e tutti i suoi associates e i russi. È diventata giorno dopo giorno una caccia alle streghe perché non emergono fatti concreti ma soltanto la trama di un'intensa attività d'affari e di contatti personali. Tutto ciò ha messo a disagio Donald Trump, il quale si trova esposto sia a continue rivelazioni di intercettazioni che compromettono i suoi uomini, sia ai disinvolti comportamenti di alcuni personaggi russi che con allegra superficialità confermano «rapporti speciali» non meno che corretti, anche se sempre più rischiosi. I democratici si sono scatenati sulla sindrome russa su cui fanno leva per mettere sotto accusa il Presidente, costretto a giocare una partita personale con i suoi imprevedibili tweet.

I russi ci mettono del loro come se non si rendessero conto dell'intrico di poteri e contropoteri della politica americana. Ad esempio, il vice ministro russo degli Esteri Sergei Ryabkov è entrato come un elefante nella cristalleria per dichiarare che «ci sono sempre stati contatti» fra il team di Donald Trump e la Russia. Il problema è che i russi hanno una organizzazione di intelligence molto diversa da quella americana: «Non portano sulla giacca il cartellino con sopra scritto agente russo», protesta Paul Manafort che ha fatto per anni affari in Ucraina e che è stato uno dei più strenui e filorussi sostenitori di Trump.

I democratici sono riusciti a far riaprire dal Fbi il dossier dell'agente segreto inglese Christopher Steele il quale consegnò al governo britannico un documento in cui si affermava che Trump è ricattato dai russi con i soliti filmini compromettenti. Il Bureau ha passato due mesi per indagare sulla scottante faccenda, senza arrivare a nulla. Ma intanto si scopre che l'Fbi ha usato tutte le forme di intercettazioni possibili per mettere nei guai gli uomini di Trump senza doverne rispondere ad alcun giudice. Che cosa emerge da questa selva di intercettazioni? Nulla di spionistico, ma una fioritura di attività commerciali tra uomini dell'apparato presidenziale e quelli che vengono definiti senior Russian intelligence officials, cioè gente dell'apparato informativo russo.

In Russia è perfettamente normale, e persino patriottico, che gli uomini d'affari e i diplomatici svolgano una doppia attività come referenti del Fsb, l'onnipotente erede del Kgb che con Vladimir Putin diventò negli anni Novanta uno strumento politico oltre che di intelligence. Una tale commistione in America è vietata e anzi severamente punita, ma il gioco è tutto politico perché le agenzie di spionaggio americane vengono tutte dalla cosiddetta old School, che ha sempre considerato la Russia, non importa se comunista o capitalista, il nemico pubblico numero uno.

La partita è più che mai aperta e Trump sa bene che sul fronte russo corre dei rischi, come dimostra il fatto che sia stato proprio lui a licenziare quasi con furore Michael Flynn per non essere contaminato dalle sue cattive amicizie.

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