«Un organo politico». «Ci sono undici membri di sinistra». «Se una legge non piace alla sinistra viene impugnata da un pm di sinistra e portata avanti alla Corte Costituzionale che inderogabilmente la abroga». Una cosa è certa: se Silvio Berlusconi leggerà i passaggi che il nuovo libro della coppia Palamara-Sallusti dedica alla vicenda del lodo Alfano, cancellato dalla Consulta nel 2009, non resterà stupito. Anzi: potrà dire «io l'avevo detto». Perché sono quasi trent'anni che il duello tra il Cavaliere e i giudici di piazza del Quirinale si popola di scontri frontali, che si risolvono quasi sempre nella sconfitta del primo. Il quale ha da tempo maturato la convinzione che lì, tra gli stucchi e gli ermellini, si nascondano alla fine i più potenti dei suoi avversari.
Eppure non era cominciata male: un giovane Berlusconi nel 1988 plaudeva («viva soddisfazione») alla sentenza che, tra mille cautele, aveva sdoganato le tv locali, aprendo la strada alla nascita del suo impero. Ma erano altri tempi, e soprattutto non era ancora iniziata l'epoca del Berlusconi politico. Nel '94 cambia tutto. E il Cav deve rendersi conto in fretta che nessuna maggioranza parlamentare, neanche la più ampia, gli risparmierà di fare i conti con la Consulta. Da lì iniziano i guai. Perché a sbattere contro il muro della Corte vanno una dopo l'altra non solo le leggi che girotondi e magistrati democratici catalogano come «leggi ad personam» ma anche norme che fanno parte del percorso ordinario di un governo. Sotto la tagliola finiscono uno dopo l'altro i provvedimenti del «pacchetto sicurezza» con cui il terzo governo Berlusconi aveva risposto all'emergenza criminalità. Nel 2005, caso più unico che raro, la Consulta cassa la legge finanziaria di Tremonti, colpevole di tagliare i fondi alle Regioni.
Ma a guastare i rapporti in modo irrimediabile è il trattamento riservato alle riforme che puntano a depotenziare i pm: nel 2004 viene cancellato il lodo Schifani, che proteggeva le alte cariche istituzionali dagli attacchi delle Procure. Nel 2009 stessa sorte al lodo Alfano. Nel pieno del caso Ruby, la Consulta dà torto persino alla Camera dei deputati che rivendicava per il processo la competenza del tribunale dei ministri.
Dietro ogni botta, in questi anni Berlusconi ha intravisto la lunga ombra del complotto che - dalle Procure fino alla presidenza della Repubblica - userebbe la Consulta per fare dell'Italia un paese a democrazia limitata. Fu così anche nell'occasione più macroscopica, l'azzeramento nel 2007 della «legge Pecorella», la norma che impediva alle Procure di impugnare le sentenze di assoluzione. Era una conquista di civiltà, che oggi viene invocata dall'intero mondo dei penalisti, e che persino la commissione nominata dalla ministra Cartabia (ex giudice costituzionale, peraltro) aveva inserito nel suo piano di riforme prima di essere stoppata dal «partito dei pm». Ma allora l'innovazione venne liquidata come una sorta di ignobile scudo offerto dal Parlamento al premier-imputato.
Per Berlusconi il top fu venire a sapere che l'autore della sentenza era il giudice Giovanni Maria Flick: che era ed è un grande giurista, ma era stato ministro della Giustizia nel governo di Romano Prodi, ed era stato il primo giudice costituzionale nominato da Carlo Azeglio Ciampi, che era approdato al Quirinale dopo essere stato anche lui ministro nei governi di Prodi e di Massimo D'Alema. Per il Cavaliere, il messaggio diceva che il cerchio si era chiuso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.