È stata Anne Applebaum, in un commento pubblicato sul Washington Post nel settembre 2013 e intitolato «Angela Merkel, the empress of Europe» (Angela Merkel, l'imperatrice d'Europa), a usare l'espressione «Fourth Reich» (Quarto Reich): definizione da brivido, probabilmente esagerata, ma che potrebbe riassumere i sentimenti di molti cittadini europei di fronte a una crisi. La locuzione si è talmente diffusa che compare persino come voce dell'enciclopedia online Wikipedia, dove si legge che «il termine Quarto Reich si riferisce alla possibilità di un'ascesa e ritorno al potere in Germania e in Europa» del nazionalsocialismo (...). Nell'agosto 2012 è stato il direttore del Giornale , Alessandro Sallusti, a intitolare un suo commento «Quarto Reich», scrivendo che «di fatto, da ieri, l'Italia (e non solo lei) non è più in Europa ma nel Quarto Reich», e aggiungendo: «Monti ci sta vendendo, per codardia e incapacità, più o meno come fece il primo ministro inglese Chamberlain nel '38 a Monaco». Lo stesso ha fatto il blog del Movimento 5 stelle dove si sostiene che «sulle macerie del Sud Europa sta nascendo il Quarto Reich».
Per oltre un secolo, da quando alla fine dell'Ottocento conseguì con Bismarck l'unità statale e politica, la Germania ha coltivato una volontà di egemonia nei confronti dell'Europa. Un progetto geopolitico che si è tradotto in due sanguinose guerre, la Prima guerra mondiale condotta dall'esercito imperiale del Kaiser e la Seconda, tragica e atroce, scatenata da Hitler. Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea esso riappare all'orizzonte. Quell'egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata «pacificamente» conseguita con l'arma economica. L'era della moneta unica europea, infatti, è diventata l'epoca della grande egemonia tedesca, dove Berlino prospera e gli altri popoli europei soffrono una recessione senza precedenti. Angelo Bolaffi, filosofo e germanista, ha scritto: «Alla base del risentimento antitedesco che circola oggi in Europa non ci sono più, dunque (solo), le colpe storiche del passato, ma piuttosto le scelte del presente: la Germania, forte della sua forza, pretende così pensa un diffuso senso comune di trasformare la propria ossessione per il rigore finanziario e la stabilità monetaria nella Costituzione materiale dell'Europa, minacciandone in tal modo gli equilibri economici, le conquiste sociali e persino il funzionamento dei sistemi democratici».
Quasi settant'anni fa la Germania usciva da una guerra disastrosa, ridotta in macerie materiali e soprattutto morali, con la responsabilità e l'onta del crimine più grave contro l'umanità, la Shoah. Ora, come ha osservato il sociologo Ulrich Beck, apprezzato docente alla London School of Economics, «si è trasformata da docile scolaretta in maestra dell'Europa». L'Unione europea nacque, nel pensiero e negli intendimenti di chi la volle, per evitare, dopo due sanguinose guerre, che l'Europa potesse tornare a essere terreno di fratture e di egemonie, che potesse ripetersi una «guerra civile europea». Oggi, invece, l'Europa è percepita come una minaccia alla stabilità economica e sociale di milioni di cittadini del Vecchio continente. E la Germania, a torto o a ragione, viene identificata con le politiche rigoriste, con l'astrattismo formale e il deficit di democrazia che questa Europa ha espresso. L'Unione appare costruita secondo il modello sociale ed economico del Nord Europa, senza considerare le peculiarità e le caratteristiche storiche dei popoli latini.
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L'euro è stato l'eldorado della Germania. «In due mosse Berlino ha dato scacco ai partner latini usando la nascita dell'euro e i parametri di Maastricht» ha scritto Marco Fortis. Aggiungendo: «È del tutto falso che la forza dei tedeschi sia nell'export verso gli Stati che stanno vivendo una fase di espansione. I surplus commerciali sono cresciuti prima che cominciasse la grande crisi, soprattutto grazie alla moneta unica. Dal 1999 al 2007 l'import tedesco di merci italiane è volutamente calato in tutti i settori produttivi. Dal 2008 in poi Berlino è riuscita inoltre a finanziare a basso costo i propri crescenti disavanzi a scapito dei Paesi mediterranei. L'esposizione della Germania verso l'estero è cresciuta di 345 miliardi. E l'Italia passava per sorvegliata speciale. Nonostante i sacrifici fatti dalle famiglie italiane la Ue non è ancora soddisfatta».
Da diversi anni la Germania fa segnare un surplus delle sue partite correnti, un eccesso di esportazioni che viola i Trattati istitutivi dell'euro, i quali prevedono che l'attivo della bilancia dei pagamenti non superi il 6 per cento del Pil nella media triennale e che il passivo non vada oltre il 4 per cento del Pil. Ebbene, da molto tempo Berlino trasgredisce quelle norme europee che è inflessibile a invocare per altri casi e per altri parametri, giungendo a un surplus corrente del 7,9 per cento del Pil, una dimensione da record per uno Stato a economia matura. Su questo punto il governo tedesco ha subìto anche le critiche del Tesoro e del dipartimento del Commercio americani. Per ridurre l'eccessivo surplus corrente, Berlino dovrebbe far crescere la domanda interna, incentivando i consumi e incrementando la spesa pubblica con investimenti infrastrutturali, aumenti dei salari e dell'inflazione. Tutte cose che la cancelliera Merkel, gelosa del primato tedesco, non ha alcuna intenzione di fare.
In altre parole, la Germania, secondo quanto ritiene più di un analista, pretende di esportare senza consumare, di vendere senza investire, contribuendo alla crisi economica del Sud Europa. In teoria l'Unione europea avrebbe gli strumenti giuridici e i motivi di fatto per intervenire ma, al di là di qualche blando e formale richiamo, subisce l'egemonia tedesca. Il finlandese Olli Rehn, ex calciatore, commissario europeo agli Affari monetari che si è distinto per i continui richiami all'Italia e per le posizioni smaccatamente filotedesche, ha definito la questione «semplicistica» ed «eccessivamente politicizzata».
Nella sua inchiesta Fortis ricorda quali erano le condizioni economiche della Germania prima dell'inizio della stagione dell'euro. «Nel 1998, prima che cominciasse l'era dell'euro, la Germania era la malata d'Europa, col Pil che cresceva molto meno di quello italiano. Le famiglie tedesche, dopo la riunificazione delle due Germanie, erano super-indebitate. La ricchezza finanziaria netta delle famiglie tedesche era di appena 1796 miliardi di euro contro i 2229 miliardi delle famiglie italiane. Il debito pubblico tedesco del 1998, se espresso in percentuale della ricchezza finanziaria netta delle famiglie anziché del Pil, era di gran lunga più elevato (66%) di quello italiano (56%)».
Nel 2004, secondo quanto stimò l'allora ministro delle Finanze tedesco Hans Eichel, il rapporto deficit/Pil della Germania sforò i parametri di Maastricht e raggiunse il 3,9 per cento. L'anno precedente, il deficit si era attestato al 3,8 per cento e più o meno, in quel biennio, lo stesso deficit fu conseguito dalla Francia. L'istituto di ricerca economica Diw stimò, invece, lo sforamento in un 4,3 per cento. Dunque, per tre anni consecutivi, dal 2002 al 2004, sia la Germania sia la Francia hanno avuto un deficit superiore al 3 per cento; nel 2005 il deficit francese è rientrato nei parametri, mentre quello tedesco era ancora al di sopra, attestandosi al 3,2 per cento.
Trattati e leggi europee alla mano, i due influenti Paesi avrebbero dovuto essere sanzionati e subire una severa procedura d'infrazione, ma così non fu. In occasione del Consiglio europeo di Napoli, nel novembre 2003, con l'Italia presidente di turno dell'Unione, Francia e Germania furono «graziate». Tra i motivi di tanta clemenza, il tasso di disoccupazione tedesco, giunto all'11,7 per cento.
Italia e Germania, Paesi manifatturieri centrati su un'economia di trasformazione, da decenni hanno fatto delle esportazioni il fulcro delle rispettive economie. Ma in questo campo Italia e Germania sono in competizione frontale, poiché c'è una sovrapposizione in quasi tutti i settori produttivi, nel senso che in ogni parte del mondo si può comprare una macchina utensile, un elettrodomestico, un apparecchio elettromedicale, un prodotto farmaceutico, un cacciavite di marca italiana o tedesca. Lo scontro è anche geografico, perché entrambi i Paesi puntano ai mercati dell'Est Europa, agli Stati Uniti, all'America Latina. Fra i due Paesi esiste anche un importante interscambio diretto: la Germania è infatti il mercato più consistente per esportare le nostre merci e, nel contempo, importiamo dalla Germania più che da ogni altra nazione. Una volta, soprattutto negli anni Settanta, i tedeschi erano il piatto ricco dell'intero movimento turistico verso il Belpaese, mentre oggi, pur essendo ancora una fetta consistente, sono diminuiti (circa 11 milioni l'anno) perché molti di loro si indirizzano verso la Spagna, la Grecia e gli Stati dell'ex Iugoslavia (...).
Resta poi, lapidario, il giudizio di Fortis: «Ciò che ha reso davvero ricca e creditrice la Germania verso l'estero, mettendola nella condizione di dettare oggi legge in Europa, è stato l'euro, non le riforme e tantomeno la crescita del Pil». Rimesse in ordine alcune verità, non si può contrapporre alla vulgata fino a oggi dominante un'altra che aspira a costruire una nuova egemonia. La virtuosità della Germania, l'opportunità di alcune sue riforme, il prestigio della sua classe dirigente sono fattori che non possono essere negati né trascurati. Allo stesso modo non si possono negare gli errori e le facilonerie delle élite (non solo quelle politiche) che hanno guidato i Paesi che ora sono in difficoltà.
Resta il fatto che, per merito proprio e demerito altrui, la Germania ha costruito un sistema europeo prevalentemente a suo vantaggio, quello che Beck chiama «euro-nazionalismo tedesco», in virtù del quale Paesi come l'Italia e la Spagna restano nell'euro ma, in un gioco di parole e di realtà, vengono «esautorati».
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