È una bilancia che pende sempre dalla stessa parte. Pugno di ferro con i colletti bianchi, guanto di velluto con i terroristi di casa nostra. C'è qualcosa che non torna nell'atteggiamento della giustizia italiana. Dura, durissima, con i politici, gli imprenditori, i manager, super garantista con i presunti jihadisti. Non è un problema di toghe rosse o di persecuzione del centrodestra, no il tema è se possibile ancora più drammatico e inquietante: c'è un' asprezza, c'è un furore granitico nel perseguire i Dell'Utri, i Cosentino, gli Scaglia, i Mantovani. Dosi industriali di carcerazione preventiva, pene robuste, senza alcuna attenuante, qualche volta si scopre dopo mesi e mesi che l' imputato, portato in manette in cella, era innocente. Silvio Scaglia, uno degli italiani più noti all'estero, passato per i brillanti successi di Omnitel e Fastweb, si è fatto un anno intero blindato, fra Rebibbia e la casa in Val d' Aosta, prima di essere assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio. Nicola Cosentino, ex deputato, è in galera dal 3 aprile 2014, ma la prima condanna, a 4 anni per corruzione, è arrivata solo un mese fa. Dunque, dopo più di due anni di attesa e naturalmente la pena potrebbe essere cancellata o ridotta in appello. Non si tratta di difendere Cosentino, al centro di numerosi procedimenti al crocevia fra affari e camorra, ma si ha l'impressione che i giudici tengano un altro passo quando esplorano le strade del terrore.
Oggi (vedi altro articolo) il ministro dell'Interno Angelino Alfano parla di centinaia di arresti nel 2016 per terrorismo, ma la giostra dei numeri, con tutto il rispetto, serve solo per confondere le idee. Nell'intero 2015, come scritto da Repubblica qualche settimana fa, le manette per i fanatici della jihad sono scattate solo 23 volte e 5 presunti pericoli pubblici, 5 su 23, più di un quinto, sono usciti quasi subito, fra ripensamenti del gip e sconfessioni del tribunale del riesame. I numeri roboanti che riempiono le statistiche sono quelli dei reati satellite: furto, rapina, spaccio, magari in collegamento con una rete della jihad. Importanti, ma da seconda linea.
La verità è che le armi sembrano spuntate lungo la frontiera del terrore, dove si procede fra mille interpretazioni, mille attenzioni, mille sottigliezze tecniche. Negli anni scorsi la magistratura si era interrogata e divisa sulla distinzione fra guerrigliero e terrorista. Poi, come spiegava in un'intervista Roberto Rossi, pm in prima linea a Bari, «in Italia per arrivare al processo non basta che uno sia stato in Siria a combattere ma occorre la partecipazione effettiva al gruppo terroristico o la commissione di un reato sul nostro territorio». Dotte questioni giuridiche. Il libero convincimento della toga che scava come un tarlo fra le contraddizioni delle leggi. E poi una buona dose di diffidenza: si resta basiti nel vedere il clamoroso flop della monumentale indagine del Ros che dal 2010 aveva monitorato i sussulti di un gruppo di jihadisti legati al movimento Al Ansar al Islam. Il gip di Roma concede 17 arresti, ma quando l'inchiesta passa a Trento bastano due righe quasi sprezzanti per chiedere l'archiviazione di 8 posizioni su 17: «Non ci si può accontentare di contatti episodici a mezzo del computer».
Un tratto di penna e via.
Chissà perché quando sul banco degli imputati finisce, come ha documentato ieri il Giornale, uno stimato militare italiano, Francesco Raiola, già in Kosovo e Afghanistan, ci vogliono cinque mesi ai domiciliari per dimostrare che le mozzarelle erano davvero mozzarelle e non cocaina o eroina.SteZu
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