E il padre del lievito madre finì a fare il pane sulle Alpi

Eugenio Pol è il profeta del metodo naturale: "Gli enzimi della birra fanno male alla salute". Le sue micche da cinque chili conquistano gli chef stellati Michelin e i giapponesi

E il padre del lievito madre finì a fare il pane sulle Alpi

«Stamattina un'aquila stava per ghermirmi Kidu. Sono corso in avanti, ha preso paura ed è volata via». Kidu è uno dei due cocker neri di Eugenio Pol e ha rischiato di fare la fine dell'agnello bianco che nell'Ottocento venne artigliato addirittura fra le braccia di una valligiana, mentre la donna se lo stava portando a casa. Quella volta ebbe la peggio il rapace: la robusta montanara lo riempì di legnate e oggi troneggia, impagliato, nella sala consiliare del Comune di Fobello, località di montagna dimenticata da Dio e dagli uomini, dove finiscono la strada e il mondo, nel senso che oltre il rifugio Alpe Baranca non si può salire. Soltanto là dove osano le aquile, cioè in Alta Val Mastallone, poteva planare questo cuoco e panificatore di 55 anni, a suo modo anch'egli un'aquila solitaria abituata a volare alto e a osservare con distacco le miserie del mondo globalizzato. Tant'è che sui sacchetti del suo forno, Vulaiga, che nel dialetto locale designa qualcosa di leggero svolazzante in cielo («può essere neve a larghe falde o cenere uscita dal camino»), ha messo un'aquila nell'atto di strappare dalle mani dell'alpigiana una pagnotta invece dell'agnellino.

A Faggio Bello - questo significa il nome del Comune, appena 229 abitanti che formano 139 famiglie sparse in 23 minuscole frazioni - fino a 20 anni fa le uniche glorie locali erano Vincenzo Lancia, il fondatore dell'omonima casa automobilistica che qui ebbe i natali, e la tenebrosa Villa Musy, fatta costruire nel 1901 da Carlo Musy, ultimo erede di una dinastia di orafi, gioiellieri, argentieri e orologiai che per due secoli fu la fornitrice ufficiale di Casa Savoia. Ma dal 1996 c'è lui sugli scudi, il fornaio che impasta il pane più buono d'Italia. Così hanno sentenziato gli chef di molti ristoranti stellati Michelin, come Olivier Roellinger del Coquillage di Cancale in Bretagna, Aimo e Nadia di Milano, Enrico Bartolini del Devero di Cavenago di Brianza, Luisa Valazza del Sorriso di Soriso, Igor Macchia della Credenza di San Maurizio Canavese, i fratelli Damini di Arzignano. Massimiliano Alajmo delle Calandre di Sarmeola di Rubàno si è talmente appassionato che ha voluto imparare da lui come si fa. Antonino Cannavacciuolo di Villa Crespi a Orta San Giulio usa le briciole di Fobello per una delle sue ricette più azzeccate, l'insalata liquida con burrata.

Pol - perdonate il gioco di parole - è il padre della madre, intesa come lievito, un prodotto naturale che i panettieri avevano smesso di adoperare nel Settecento e che lui ha fatto riscoprire. Perciò dimenticatevi delle michette, delle ciabatte, delle rosette, dei filoncini, degli arabi, delle ciriole, delle mantovane, delle baguette che siete abituati a mettere sotto i denti ogni giorno, «autentiche schifezze, ottenute tutte con il lievito di birra, che fanno male alla salute», va giù duro il titolare della Vulaiga, perito chimico, dunque competente in materia. Lui produce soltanto pani con pezzature da 1,4 a 5 chili, che si conservano per più settimane e soprattutto che sono fatti unicamente con farine di grani antichi, forse sarebbe più esatto dire preistorici (Senatore Cappelli, Russello, Timilia, Margherito, Strazzavisaz, Faraone), di frumento monococco, di segale, di grano saraceno e di avena integrali, macinate a pietra e prive di lieviti aggiunti. Pani dal profumo inebriante e arricchiti da ingredienti inaspettati (polline di fiori, burro di Normandia, nocciole tonde di Langa, mandorle di Torrito, capperi di Pantelleria, uva di Smirne, semi di carota selvatica), nonché da un'infinita varietà di erbe (achillea millefolium, melilotus officinalis, asperula odorosa, trigonella cerulea, finocchio, aneto, coriandolo, anice stellato): alcune Pol va a raccogliersele da solo in quota, sfidando le aquile. Pani intitolati a poeti (Emily Dickinson), a cantanti (Demetrio Stratos), a pianisti jazz (Bud Powell e Bill Evans), fino al tipo I love you , con rape rosse, polvere di scorze d'arancia, semi di carvi, lino dorato e cumino di Malta, dedicato alla moglie Federica Giacobino, fobellese doc che lo ha felicemente costretto ad accasarsi per sempre nella Conca di Smeraldo incastonata dentro il Parco naturale dell'Alta Valsesia, il più elevato d'Europa, visto che arriva fino ai 4.554 metri della Capanna Regina Margherita, il rifugio sul monte Rosa.

Pol è nato a Milano ma ha nelle vene sangue veneziano, dello stesso gruppo dell'esploratore Marco Polo, dal cui casato deriverebbe per apocope il suo cognome, «o forse avvenne il contrario, i Polo si aggiunsero una “o”». Il piccolo Eugenio veniva da queste parti con il padre a catturare trote nel Sesia e nel Mastallone. Un hobby, quello della pesca a mosca, che continua a coltivare con la stessa certosina passione con cui fa il pane: «Gli ami vanno costruiti al momento, con la seta e le piume di pernice».

Pane e pesci. Molto biblico.

«Tutto nasce dal fatto che a 17 anni scappo di casa e finisco a fare il garzone in corso di Porta Romana, nel negozio di casalinghi Fornaro».

Un nome, un destino.

«Fra pentole, posate e piatti, mi prende la passione per la cucina, che diventa una necessità quando la sera torno nella casa di ringhiera in fondo a corso Lodi. Un amico che partecipa al concorso di guardaparco in Alta Valsesia mi dice: “A Rima si libera l'osteria-alimentari del vecchio Geremia. Chiede solo che gli si paghi la Faema, la macchina per il caffè”. Salgo fin lassù a vedere: 4 residenti effettivi. Rinnovo l'insegna: Dal Gulus. Cucino solo d'estate e nelle feste comandate. D'inverno non arriva nessuno per via delle valanghe. Per cui getto la spugna e torno a Milano».

A fare che?

«A lavorare al Mercato del pesce per i fratelli Pedol, importatori storici di prodotti ittici. Poi al ristorante La Vittoria. Dopodiché passo in un locale aperto dal titolare della trattoria Cervo, la più vecchia di Milano, dove si cucinava ancora sulla stufa a legna. Nel 1990 mi offrono un'osteria a Varallo. Lì comincio a farmi il pane con le farine biologiche macinate a pietra da Renzo Sobrino, mugnaio a La Morra, nel Cuneese. Ma nel naso avverto l'odore del lievito di birra, insopportabile».

Quello che viene scambiato per aroma di pane fresco.

«Esatto. Perciò riscopro il lievito madre, in Italia pressoché dimenticato. Non è che ci voglia molto per farlo: basta mescere acqua e farina in una bacinella, coprire con un telo e aspettare che l'impasto venga aggredito da batteri e lieviti selvaggi. Dopo qualche giorno, la madre fermenta, fa le bolle. Allora si aggiungono farina e acqua per dar da mangiare a questi microrganismi».

Ho sentito racconti leggendari in proposito. Per ottenere il lievito madre servirebbe la rugiada del giorno di San Giovanni.

«Teresio Busnelli, maestro del panettone ad Arluno, mi raccontava che un tempo si avviavano le fermentazioni persino con lo sterco di cavallo».

Non poteva fare il pane in una località meno remota di questa?

«No. Oltre alle farine, servono un'aria e un'acqua particolari, purissime».

Come si vive a Fobello?

«Benissimo. Nel capoluogo restano 120 abitanti, quasi tutti sopra i 70».

Lei è l'unico che lavora?

«Non proprio, ma quasi. Faccio tutto da solo. Il sabato mi dedico alle fermentazioni. La domenica mi alzo alle 2 di mattina e panifico fino alle 23. Tutta una tirata. Il lunedì consegno a ristoranti, negozi biologici e privati, in un'area compresa fra Gravellona Toce e Biella, e spedisco per corriere in tutta Italia, in passato persino in Giappone. Il martedì ricomincio il ciclo».

Cuoce il pane solo due volte a settimana? Mi pare un controsenso.

«Perché? Se conservato in ambiente non umido, avvolto in un telo di lino e deposto su una griglia di legno per lasciar circolare l'aria, il mio pane dura anche un mese. Mezz'ora in un forno preriscaldato a 160 gradi ed è più fragrante che appena fatto. E poi si può sempre congelare».

Che pane si mangia nelle città?

«Un surrogato. Pane finto. I grani moderni provocano intolleranze, perché il nostro organismo non riesce ad aggredire le loro proteine. Invece, con i grani antichi, la pasta acida distrugge la maglia glutinica, in pratica compie una specie di predigestione, con il risultato di farti digerire molto meglio».

Gino Girolomoni, noto come Alce Nero, mi parlava di frumenti che rendono 80 quintali per ettaro, anziché 20. Il risultato è che il ministero della Salute ha dovuto via via autorizzare ben 350 additivi nel pane.

«È vero. Prenda il pane bianco, tanto amato dal consumatore. Un insulto alla natura e alla salute. Il grano non è mai bianco, ha una tonalità sul giallo. Infatti vengono adoperati il bromato di potassio o il diossido di cloro per sbiancare le farine. E in precedenza si usa nel campo il bromuro di potassio per farlo maturare. Il lievito di birra completa l'opera distruttiva».

È così micidiale il lievito di birra?

«Scatena la fermentazione alcolica. Invece quella del lievito madre è acido-lattica. Differenza enorme: nella seconda intervengono i batteri della specie Lactobacillus, i quali producono acido lattico, acido acetico e anidride carbonica utilizzando gli zuccheri presenti nella farina. Sono questi batteri a caratterizzare sapore, odore, conservabilità e alta digeribilità del pane».

Ma allora perché tutti i panificatori usano il lievito di birra?

«Perché con quello cominciano all'1 di notte e alle 6 hanno già finito di lavorare. In cinque ore sfornano la quantità di pane che io riesco a produrre solo in due settimane. Inoltre le farine odierne sono ricavate da cariossidi troppo secche, alle quali è stato asportato il germe, cioè la parte più ricca di enzimi. Quindi i fornai si trovano in difficoltà a gestire una lievitazione acida e devono ripiegare sul lievito di birra».

Lei quanto pane produce ?

«Dai 400 ai 500 chili a settimana».

Però usa il forno elettrico.

«Embè? Sono un integralista, ma fino a un certo punto. Capisco che il forno a legna sarebbe più folcloristico, ma avrà letto anche lei sui giornali che certi panificatori a Napoli bruciavano i mobili e le traversine dei treni».

Nel 1861 ogni italiano mangiava 1 chilo e 100 grammi di pane. Nel 2014 il consumo pro capite è sceso al minimo storico: appena 90 grammi al giorno. Perché?

«Perché fa sempre più schifo. E perché è sempre più demonizzato. Come dice Guido Ceronetti, il pane è un alimento povero e da poveri. Lodare il pane è come lodare la povertà, spettro temuto e aborrito, essendo la povertà non assenza bensì presenza di pane».

Secondo i dietologi ingrassa.

«Hanno ragione. Il pane bianco fatto con farina zero o doppio zero e la pasta di semola di grano duro sono bombe zuccherine. Lo sa che un panino su quattro presente nei supermercati arriva dalla Romania? C'è dietro un giro d'affari da mezzo miliardo di euro l'anno. Dall'Est importiamo semilavorati congelati che restano in frigo due anni prima di passare nel forno».

Spopolano il pane arabo e il kebab.

«Sono spariti i neuroni del gusto, insieme con quelli del bello».

All'Expo si resta sbigottiti nel vedere che i pani esposti lungo il Decumano, ma anche la frutta, la verdura, i salumi, il pesce, persino i maiali, sono fatti di plastica.

«E che dire del campo di grano che hanno piantato a fianco del ristorante Ratanà, sotto il grattacielo di Unicredit, già sapendo che a ottobre lo toglieranno?».

Quanto pane mangia?

«Una marea. Ha presente il pane e acqua dei galeotti? Quando sto lavorando, con due fette del mio Amj, dedicato all'anarchico francese Alexandre Marius Jacob che ispirò la figura romanzesca di Arsenio Lupin, tiro avanti fino a sera. Persino uno dei miei cani vive solo di pane».

Perché Gesù, dettando il Padre nostro, a «dacci oggi il nostro pane» avrà aggiunto «quotidiano»? Dopo quell'«oggi», sembra pleonastico.

«Per ricordarci che ci dobbiamo far bastare la razione strettamente necessaria, insieme con il vino, alla nostra sopravvivenza. Non rammento di altri alimenti presenti nell'Ultima cena».

Quindi lei sente di lavorare a un cibo sacro?

«Certo. Il pane viene dalla terra. L'uomo l'ha solo addomesticato».

(766. Continua)

stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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