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Ecco perché il Pd tifa Giorgia Meloni

Ritirare fuori le bandiere del vecchio scontro con la destra come collante, è la scorciatoia più semplice per un partito a corto di idee

Ecco perché il Pd tifa Giorgia Meloni

Il ragionamento in fondo te lo aspetti, perché in altri periodi e con altri personaggi, nelle diverse stagioni del bipolarismo italiano quella musica l’hai sentita tante volte. In uno dei corridoi di Montecitorio l’ex ministro del governo Conte e lettiano di ferro, Francesco Boccia, si lancia in un elogio sperticato di Giorgia Meloni in funzione anti Salvini. «Per ora il cazzaro verde – confida in una sorta di confessionale davanti alla toilette della Camera – ci è funzionale per quello che fa e, soprattutto, dice. Poi sicuramente, appena la Meloni lo supererà nei sondaggi, sbroccherà. Lui non accetterà mai di essere il secondo e darà l’addio al governo. La verità è che la Meloni è brava, è una strutturata sui territori. Il suo partito c’è e durerà nel tempo. E a noi sta bene così. Per noi competere con lei è più facile. Lo scontro destra-sinistra ci ricompatta».

Appunto, a un Pd in crisi, che alle prese con la follia grillina non riesce a mettere insieme uno straccio di coalizione, non pare vero: ritirare fuori le bandiere del vecchio scontro con la destra, le polemiche e tutto l’armamentario del 25 aprile, come collante, è la scorciatoia più semplice per un partito a corto di idee. Per cui, anche se Salvini ha accettato di far parte di un governo di larghe intese, anche se è pronto a gettarsi nel fuoco per Mario Draghi, per il Pd è irresponsabile. Mentre la Meloni che se ne è infischiata, che di fronte ad una tragedia che ha fatto quasi 130mila morti, si è ritagliata lo spazio redditizio sul piano dei consensi di unica forza di opposizione, per quel mondo è diventata l’avversario da privilegiare. Dice Enrico Letta, lo stratega venuto da Parigi, senza scomporsi: «Meloni è abile e combatte con molta destrezza. Salvini ha fatto la scommessa di stare al governo e fare opposizione, ma è meno credibile».

Il gioco, insomma, è sempre lo stesso, si ripete da decenni, è andato avanti nell’ultima coda del secolo scorso e lo ritrovi nel terzo millennio: in soldoni l’ambizione della sinistra, che sconfina nella presunzione se non addirittura nell’arroganza, di scegliersi l’avversario. Silvio Berlusconi, che ora è diventato l’interlocutore prediletto degli eredi della Dc e del Pci, negli anni si è visto mettere contro Umberto Bossi: l’indimenticabile frase di D’Alema, «la Lega costola della sinistra», ha fatto storia. Oppure Gianfranco Fini che Giorgio Napolitano utilizzò per far fuori l’ultimo governo del Cav. Ora, appunto, è la volta di Matteo Salvini a cui Letta e compagni preferiscono niente poco di meno che Giorgia Meloni, cioè la destra che sarà pure frutto di mille «revisioni», che si sarà meritata tutte le patenti democratiche del mondo, ma che discende dall’albero genealogico di Giorgio Almirante. Ora nel Pd non ne parlano, ovviamente, solo lodi, ma al momento opportuno, si può star sicuri che Letta e compagni torneranno a storcere la bocca su quel passato e, magari, sarebbe il colmo ma nel Belpaese tutto è possibile, rinfacceranno alla Meloni quei legami con la destra europea che gli hanno impedito di far parte del governo Draghi. «La Meloni – spiega Andrea Romano, tradendo le intenzioni future – mantiene un lato non tranquillizzante.

Perché intorno a lei c’è sempre quella destra radicale che resta una componente centrale di quel mondo». Per cui l’operazione è fin troppo scoperta, anche perché è tutt’altro che inedita. Ecco perché dentro il Pd c’è chi è scettico o chi vorrebbe utilizzarla in altro modo. «Sono le solite furbizie per dividere il campo avverso che lasciano il tempo che trovano», è il sarcasmo di Luciano Pizzetti. Mentre il siciliano Fausto Raciti la considera la solita trovata di stile «lettiano» che alla fine sfocerà in un infortunio: «Forse è una nuova strategia – ridacchia – che scopriremo quando fallirà». Una strategia che sembra il segreto di Pulcinella e che vede Enrico Letta nei panni di Alberto Sordi in Un americano a Roma che per dare coraggio alla sua strampalata compagnia di ballo, conclude una coreografia alquanto scontata con la memorabile battuta, «Qui c’è l’applauso!», e, invece, si becca una fragorosa pernacchia. Ecco perché c’è chi vorrebbe sfruttare il dualismo Salvini-Meloni in altro modo. Magari come arma di persuasione verso la Lega. Racconta Enrico Borghi, numero uno del Pd in Copasir: «Oggi ho parlato con un autorevole leghista e gli ho spiegato che senza di noi e loro non si fa nessuna legge elettorale. In più gli ho fatto intendere che una legge elettorale proporzionale ci permetterebbe di mantenere un minimo di reciprocità nella nuova stagione politica, indispensabile per condurre in porto nei prossimi anni gli impegni con l’Europa. In più a loro risolverebbe il problema Meloni. Lui mi ha ascoltato con interesse».

Probabilmente si tratta solo di illusioni, ma sicuramente l’idea che l’operazione pro Meloni possa riuscire è altrettanto campata in aria. I forzisti, che ne hanno viste tante simili, la giudicano con sufficienza. «La sinistra, al solito, cerca di scegliersi l’avversario – spiega il ministro Mara Carfagna – ma è una strategia che non gli ha portato bene in passato. Per loro è comodo riprodurre il confronto ruvido sinistra–destra . Il vero problema è che Letta è slegato dalla realtà. Basta pensare che in un momento in cui il Paese vede la prima luce in fondo al tunnel, non trova di meglio che parlare di tasse. Un atteggiamento pseudo-intellettualistico: troppi libri e poco Paese reale. A differenza di Draghi che applica i libri al Paese reale». E alla fine si finisce per parlare sempre di Draghi, il premier che ha portato oggi Salvini al governo e che Salvini vorrebbe portare domani al Quirinale. «L’unica cosa certa è che Draghi vuole andare al Colle», confida uno dei competitor: «Questo è sicuro. Ha addirittura inviato il suo consigliere, il prof. Giavazzi a sondare la Meloni. La corsa si aprirà agli altri concorrenti solo se Draghi non riuscirà e tramonterà l’ipotesi del Mattarella-bis che piace tanto al Pd. Solo che se va Mattarella per un paio d’anni, il centrodestra, dopo aver vinto le elezioni, non farà più Draghi, ma uno suo. Non sono mica dei pazzi».

Sarebbe l’ennesimo infortunio dello stratega venuto da Parigi. Augus

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