Parlamentari contagiati dal Covid, numeri ballerini alle Camere, pressione degli alleati contro l'accentramento di poteri a Palazzo Chigi.
Così alla fine, ieri, il premier Conte un segnale alle opposizioni ha dovuto mandarlo, tirato per la giacchetta dal leader dem Zingaretti e persino dai Cinque Stelle, terrorizzati dal rischio di inciampi parlamentari: «Auspico che il clima di leale collaborazione tra tutti i gruppi parlamentari, registrato durante la fase più dura della pandemia, possa conservarsi anche in vista del voto sul prossimo scostamento di bilancio, passaggio fondamentale per assicurare le risorse necessarie ad affrontare le sfide della pandemia». Poi, come sollecitato dal Pd, promette di «coinvolgere» la minoranza sul Recovery Plan.
Tra oggi e domani, a Montecitorio come a Palazzo Madama, servirà la maggioranza assoluta dei membri (316 da una parte, 161 dall'altra) per varare lo scostamento, indispensabile per definire la legge di bilancio, e nella maggioranza c'è allarme, e la speranza che dalle opposizioni possa arrivare una mano d'aiuto. Lo chiede Casini, lo sollecita Renzi: «Fate un gesto di responsabilità». Ad esempio per consentire a deputati e senatori «quarantenati» di votare in remoto: il ministro grillino D'Incà, a dimostrazione che il problema esiste, si è improvvisamente convertito allo «smart-voting», contro cui fino a pochi giorni fa tuonava. Ora la musica è diversa: «Dobbiamo pensare al voto a distanza, almeno per i voti particolarmente difficili». Come quello sullo scostamento di bilancio, per l'appunto.
Il presidente del Consiglio ieri è passato con entusiasmo da una diretta tv all'altra: prima al «punto stampa» convocato a Palazzo Chigi per illustrare il nuovo Dpcm, poi in Senato per illustrare la linea del governo in vista del Consiglio europeo. Conte aveva sperato di poter firmare le nuove misure già lunedì sera, e aveva informalmente avvertito i cronisti di tenersi pronti per una conferenza stampa-monologo serale, come ai bei tempi del lockdown. Ma la firma è slittata per i vari contrasti da sanare, e lo show pure. Occorrono «nuovi sacrifici», ha spiegato, perché l'Italia sta meglio di altri paesi ma la curva epidemiologica sta salendo e «dobbiamo evitare di far precipitare il paese in un nuovo lockdown generalizzato». Per poi rassicurare sul fatto che non c'è alcuna intenzione del governo di ingerirsi troppo nelle vite degli altri: nessuna «torsione della democrazia», «non manderemo le forze di polizia nelle abitazioni private, dobbiamo assolutamente tutelare la sfera di vita privata ma dobbiamo anche assolutamente evitare le situazioni pericolose».
Poi il premier si sposta in Senato, dove si dilunga sulle meraviglie che promette di fare con i denari del Recovery Fund. Che nel frattempo, però, si è incagliata tra le diatribe nazionalistiche dei vari paesi, tanto che ieri Gigino Di Maio (sulla carta ministro degli esteri) è corso a Bruxelles a implorare di sbrigarsi. «Non possiamo permetterci rinvii e ritardi», ammette Conte. Poi aggiunge: «Non lo permetterò», non a caso ha spedito in missione l'autorevole Di Maio. Ma lo slittamento dei fondi è una ipotesi concreta, nonostante Gigino e Conte, e questo fa tornare in ballo l'ipotesi Mes che il premier vorrebbe tanto seppellire per sempre. Ieri sono stati due ex premier, Matteo Renzi e Mario Monti, a tirare sonoramente le orecchie al premier: «Il no è fondato sull'irrazionalità,» dice il primo.
«Non c'è ragione di non attivarlo e lei dovrebbe spendersi un po' di più per far superare questo irragionevole tabù, da leader della maggioranza. Perchè un leader non segue le opinioni altrui, cerca di guidarle», incalza Monti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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