D a Astaldi a Parmalat passando per Eni, Saipem e Pirelli non sono molte, ma di peso, le società di Piazza Affari che operano tra Caracas e dintorni. La profonda crisi che sta colpendo il Paese, tuttavia, non dovrebbe causare grossi contraccolpi ai business italiani. In parte perché si tratta di una minaccia che arriva da lontano, e molte società si sono tutelate: fuggendo in anticipo (Salini) o deconsolidando i business venezuelani dai bilanci (Pirelli, Saipem). Solo quindi, in pochissimi casi, la situazione è potenzialmente negativa, ma mai tale da compromettere gravemente i conti. Il collasso politico economico del Paese non è infatti improvviso. Già dal 2013, quando Nicolas Maduro, delfino di Hugo Chavez ha vinto le elezioni presidenziali la situazione è precipitata: anno dopo anno supermercati vuoti, inflazione galoppante e manifestanti in piazza sono diventate la normalità. Così, nelle ore in cui vanno in scena le rivolte post elettorali, sul mercato obbligazionario, è inoltre in atto una vera e propria fuga dai bond Venezuelani.
Il (secondo) default è dietro l'angolo? «Nei numeri spiega Claudia Segre, presidente Global Thinking Foundation il default tecnico c'è già. Al momento non è ancora avvenuto solo grazie alle garanzie della società petrolifera Petróleos de Venezuela, ai finanziamenti cinesi e agli hedge fund Usa che sono ancora posizionati sul Paese. Tuttavia la situazione potrebbe presto cambiare». Gli Stati Uniti, infatti, potrebbero decidere sanzioni e di fatto togliere il «supporto» anti-default. Basti pensare alla stima drammatica dell'inflazione venezuelana avanzata dal Fmi per il 2017 (720%) e per il 2018 (2000%). Ecco allora che per le società italiane presenti ancora nel Paese la situazione si fa complicata. Partendo dall'energia, operano in Venezuela sia Eni, sia Saipem. Il Cane a sei zampe è esposto a Caracas per 400 milioni, ma la maggior parte delle attività si svolge offshore: «Abbiamo smesso di investire nel Paese ha spiegato l'ad Claudio Descalzi, ma siamo attenti ogni giorno per assicurare la sicurezza di personale e impianti».
«Al momento Eni non dovrebbe correre grossi rischi perché il Paese ha bisogno del business energetico spiega un analista la cosa peggiore che potrebbe accadere è una nazionalizzazione, come accadde all'Eni con la società Dacion, ma il rischio sembra remoto al momento». Ad avere già scontato la crisi venezuelana è anche Saipem. L'ad Stefano Cao l'anno scorso aveva annunciato agli analisti la chiusura di 25 impianti di trivellazione (su 28). Il fermo persiste e il gruppo potrebbe spostare altrove le strutture. Numeri alla mano, Saipem vanta crediti lordi per 429 milioni, che difficilmente rivedrà, e ha già svalutato il business venezuelano nel bilancio 2016. Un altro gruppo che ha una importante presenza nel Paese è Parmalat. La società di Collecchio, oggi nell'orbita francese, ma di storia e tradizione italiana, ha una rilevante presenza in Sudamerica: il 22% del fatturato del gruppo dipende dall'area latina. E, da bilancio, emerge che Messico e Venezuela sono importanti presenze. A Caracas Parmalat ha 1689 dipendenti e 5 siti produttivi. Sul fronte delle costruzioni, Salini Impregilo era presente nel Paese con Astaldi ma «non opera più nell'area» spiega la società, mentre Astaldi ha diversi contratti in essere ma non ha precisato il peso del Venezuela sul fatturato.
Quanto a Pirelli, la svalutazione del business venezuelano a bilancio è valsa nel 2015 un rosso di 368 milioni pesando sui risultati per 559,5 milioni. Di recente ha annunciato di aver temporaneamente sospeso la produzione per mancanza di materie prime.
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