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Esposito resiste. La sua trasferta ha già sbalordito la Corte europea

Per i giudici di Strasburgo è insolito che una toga riveli ai cronisti i suoi sfoghi

Esposito resiste. La sua trasferta ha già sbalordito la Corte europea

Bisognerebbe averli calcati, quegli ovattati corridoi affacciati sui canali silenziosi dell'Alsazia. E bisognerebbe averli visti dal vivo entrare in aula, i giudici della Corte europea dei diritti dell'Uomo, compassati e inarrivabili nelle loro palandrane nere. E allora si immaginerebbe lo stupore, financo l'incredulità, davanti a un collega come il giudice Antonio Esposito (nella foto). Non solo per il suo annuncio l'altro giorno, a botta calda, in cui promette di presentarsi fisicamente a Strasburgo quando si deciderà il caso 8683/14, «Berlusconi contre l'Italie»: d'altronde lì alla Corte sono abituati ai tipi d'ogni genere che si vanno a piazzare per ore o giorni sotto le loro finestre - dai terrapiattisti ai fan di Apo Ocalan - lamentando un diritto negato. Certo, forse sarebbe la prima volta che ai cancelli blindati busserebbe un collega. Ma lì, nella grande aula disegnata da Richard Rogers, gli strepiti della strada non arrivano neanche.

A lasciare increduli i giudici della Corte, nel voluminoso carteggio arrivato nel remoto 2013 dall'Italia, e strada facendo via via arricchito di nuovi documenti, è probabilmente anche altro. Perché quando da un magistrato o un giurista viene designato dal suo paese a fare parte della Corte sa di ricevere un grande onore, e di sottoscrivere in contemporanea un patto assoluto di riservatezza. Con la stampa non si parla. Un ufficio apposito, efficiente e cortese, vigila che dagli uffici non esca un refolo. Così tutto immaginerebbero, i quarantasette giudici di Strasburgo, tranne che di poter alzare il telefono un'ora dopo avere pronunciato una sentenza. E di chiamare un giornalista amico per spiegargli che l'imputato è stato condannato «perché non poteva non sapere». Cioè, come si legge nell'atto di incolpazione di Esposito avanti al Consiglio superiore della magistratura, sollecitare «utilizzando canali personali privilegiati ai quali già in precedenza aveva fatto ricorso la pubblicità di notizie relative alla propria attività di ufficio e alla trattazione del processo».

Il Csm, come è noto, alla fine assolse Esposito: era «braccato da una stampa ostile», e si era difeso. Ma quell'atto di incolpazione è destinato a finire anch'esso nell'incarto sottoposto all'attenzione dei giudici di Strasburgo per un motivo preciso: perché l'alto magistrato veniva accusato proprio di essere venuto meno a principi sanciti dalla Corte europea. La Procura generale della Cassazione (non Ghedini, non Berlusconi) attribuiva a Esposito la «violazione del dovere generale di riserbo imposto al magistrato anche dall'art. 10, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nella interpretazione che ne è data dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, per garantire la credibilità del potere giudiziario». E insomma se Esposito andasse davvero a Strasburgo a cercare di dire la sua, i quarantasette in toga nera saprebbero di avere davanti un collega tanto illustre quanto figlio di una cultura, di un mondo, di un modus vivendi distante dal loro.

Non si stupirebbero, si badi. Perché del giudice Esposito, in realtà, hanno già pennellate sufficienti a ritrarlo nelle carte in mano alla Corte. A partire dalla trascrizione dell'audio dell'accorato racconto di Amedeo Franco, il giudice che dopo avere condannato Berlusconi andò da lui a confessare di avere fatto parte di un «plotone di esecuzione» comandato proprio da Esposito: e dalle altre testimonianze raccolte in questi mesi, dopo la pubblicazione dell'audio del giudice, dove persone di ogni tipo, prive di qualunque rapporto con la difesa di Berlusconi, hanno confermato il disagio, l'angoscia di Franco per avere accettato di firmare una sentenza in cui non credeva, decisa da Esposito prima ancora di iniziare l'udienza. È questo, probabilmente, che suonerà quasi inverosimile ai giudici di Strasburgo: che vengono da 47 paesi diversi, e dove la giustizia funziona con i pregi e le pecche delle cose umane. Ma dove le sentenze si decidono alla fine dei processi.

Ma converrà davvero, a Esposito, andare a Strasburgo?

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