Per evitare che il No distrugga il Pd Matteo recupera la vecchia guardia

I renziani della prima ora Delrio e Richetti sono tornati all'ovile

Per evitare che il No distrugga il Pd Matteo recupera la vecchia guardia

Roma Il problema politico numero Uno per Matteo Renzi, in caso di sconfitta nel referendum, si chiama Partito democratico. «Se vince il No, la scommessa più difficile sarà quella di tenere unito il Pd», dicono i più stretti consiglieri del premier.

La piccola, furibonda guerra civile interna ingaggiata dai vari D'Alema e Bersani, che per far fuori «l'intruso» che non viene dal Pci si sono schierati contro il proprio governo, è già una scissione nei fatti. E ieri, a Montecitorio, si è assistito ad uno scontro durissimo tra la ex candidata sindaca renziana di Napoli, Valeria Valente, e il bersaniano Nico Stumpo. Motivo: la minoranza Pd sta organizzando sotto il Vesuvio un'iniziativa per il No che vedrà insieme sul podio l'aspirante leader della fronda Pd Roberto Speranza e il sindaco para-grillino Luigi De Magistris, detto Giggino 'a manetta, nemico giurato del Pd. A dimostrazione che i bersanian-dalemiani sono pronti ad allearsi con chiunque pur di far fuori Renzi.

Con una vittoria del No, la minoranza interna al Pd tenterebbe immediatamente di chiedere le dimissioni di Renzi da segretario, e di accelerare il congresso. Il loro problema numero uno è che sono privi di un candidato credibile: nessuno pensa che Speranza abbia chance di battere l'attuale leader. Per questo si cerca un nome più forte, in grado di rompere l'attuale maggioranza renziana: c'è chi sogna di richiamare in patria Enrico Letta (che, secondo alcuni, non avrebbe scartato del tutto l'ipotesi) e chi lavora a convincere il ministro della Giustizia Andrea Orlando, che viene dalle file Ds. Il quale ieri, ribadendo il suo convinto sì al referendum, ha ufficialmente negato: «Non ho questo obiettivo». Ma senza diradare tutti i sospetti (dei renziani) e le speranze (degli anti-renziani).

Anche per questo il premier ha già da mesi dato avvio all'operazione di recupero dei «renziani della prima ora»: la ricucitura con Graziano Delrio, o l'abbraccio con il renziano «critico» Matteo Richetti, che il presidente del Consiglio ha voluto sul podio a gestire dell'ultima Leopolda di ottobre a Firenze. Così come si lavora da tempo a rafforzare i buoni rapporti con le aree ex bersaniane del Pd, oggi saldamente vicine al premier, come la sinistra che fa capo al ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina, gran tessitore del successo di Expo. O l'area ex dalemiana di Vannino Chiti, la cui proposta per l'elezione diretta dei futuri senatori in caso di sì alla riforma verrà ufficializzata oggi dal premier.

Sono tutte operazioni di inclusione che son servite in campagna referendaria, ma che guardano al dopo: se vincesse il No, Renzi vuole poter contare su una base solida nel Pd e in Parlamento. Per avere un pacchetto di voti determinanti per le sorti di un eventuale altro governo (alla Camera i suoi ne contano un'ottantina, al Senato, i conti variano tra i 25 e i 35). E per restare alla guida del Pd.

Del resto, anche se sconfitto, il premier potrebbe rivendicare a buon diritto che la percentuale del Sì è tutta e solo sua, e difficilmente dirigenti e base del Pd rinuncerebbero ad un leader che, da solo, riesce a spostare oltre il 40% dei voti.

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