N on c'è Milano. La Milano dei girotondi e dei fax ha chiuso la sua stagione prima ancora che si chiudesse la stagione terrena di Francesco Saverio Borrelli. Così non c'è coda, all'ingresso del Palazzo di giustizia, per scorrere davanti alla bara coperta dalla toga purpurea. L'addio al procuratore di Mani Pulite è un addio tutto interno all'orgoglio di una magistratura che ancora oggi, a oltre un quarto di secolo dall'attacco a Tangentopoli, vive della luce riflessa da quella stagione, immersa nei meriti e nelle colpe che portò con sé. A salutare Borrelli sono i magistrati che con lui hanno vissuto gli anni dell'assalto al cielo. Fuori, Milano arranca nella canicola del giorno feriale. Ma anche il resto del palazzo di giustizia vive la sua vita di tutti i giorni, la gente in coda agli sportelli, le udienze per direttissima degli arrestati. I giovani giudici degli ultimi concorsi, quelli che di Mani Pulite sanno solo il poco che ne dicono i libri, continuano il loro lavoro.
La conseguenza è che riesce ancora più evidente, nella sala grande del palazzaccio milanese, l'ultima impresa di Borrelli. Nei lunghi anni del suo regno, aveva saputo tenere unita la Procura, tenendo a bada l'agitarsi delle gelosie, dei protagonismi, degli scontri anche aspri che la visibilità piombata sul Palazzo stimolava e amplificava. Lo faceva con un mix di durezza e di equilibrio, e soprattutto di conoscenza infinitesimale di quanto accadeva e di quello che i suoi sostituti facevano. E anche ieri è Borrelli a rimettere tutti insieme, nello stesso androne di marmo, magistrati amici e nemici, giudici che si stimano sinceramente con gente che si porta dietro rancori di lunga data. Ma che ieri sfilano uno dopo l'altro, a rendere omaggio alla bara e poi a Maria Laura Borrelli, lieve e sorridente come solo una vedova milanese sa di dover essere.
A rompere il velo delle convenzioni ha provveduto solo Ilda Boccassini: che con lo scomparso aveva avuto un rapporto tempestoso, cacciata dal pool antimafia con un diktat che, in borrellese puro, la accusava di «carica incontenibile di soggettivismo»; partita per Palermo alla caccia degli assassini di Falcone insultando tutto e tutti, ma poi tornata al nord, recuperata da Borrelli al lavoro di Procura, e che nel necrologio solitario ha avuto parole di fuoco per gli eredi del capo: «Dopo di te le tenebre». Ieri Ilda non viene in Procura, non viene alla camera ardente: e forse è meglio così, perché chissà se il clima composto avrebbe retto alla sua apparizione.
Ma gli altri ci sono tutti, i Borrelli-boys di quegli anni, a darsi il turno nel picchetto d'onore intorno al feretro. Quelli di cui Borrelli aveva stima profonda: come Alberto Nobili, il pm delle missioni impossibili cui il capo ricorreva quando non sapeva più a che santo votarsi; ma anche quelli di cui, senza farne mistero, non si fidava. All'inizio il clima è rigido, commosso; poi la tensione come è giusto si stempera, iniziano i capannelli, le pacche, i sorrisi. E diventa più facile studiare chi saluta chi, notare rivalità ultradecennali sospendersi come se davvero stessero tutti dalla stessa parte. È l'ultimo miracolo di Borrelli.
E inevitabilmente, con il passare del tempo, monta la domanda: e Di Pietro? Perché accanto alla bara c'è Gherardo Colombo con i pochi riccioli superstiti, c'è un incanutito Davigo, c'è Francesco Greco che oggi siede nella stanza che fu di Borrelli. Ma il pm che incarnò l'inchiesta, quello del «Borrelli-Di Pietro non tornate indietro», non c'è: e sembra destinata a essere l'ultima puntata del rapporto tormentato tra due magistrati che più diversi non potevano essere, l'aristocratico e il contadino, ma che insieme hanno cambiato il paese. Invece, alla fine, Di Pietro appare.
Senza di lui, Mani Pulite non sarebbe mai cominciata: ma senza Borrelli, sarebbe stata assassinata nella culla. Di Pietro lo sa. E, unico tra tutti, si inginocchia a piange davanti alla bara con la toga di porpora del suo capo.Ecco, adesso Mani Pulite è davvero finita.
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