Coronavirus

"Fare cucina di qualità non è giocare d'azzardo Il nodo? È la liquidità"

Lo chef con otto stelle: "Non serve la fretta. Ma al governo nessuno ascolta i ristoratori"

"Fare cucina di qualità non è giocare d'azzardo Il nodo? È la liquidità"

Enrico Bartolini è lo chef italiano più stellato al mondo: otto «macaron» in cinque ristoranti tra Milano, Bergamo, Venezia, Monferrato, Maremma. Ha riportato le tre stelle a Milano 27 anni dopo Gualtiero Marchesi, ma è anche imprenditore e uomo di non comune intelligenza. La persona migliore con cui parlare della cucina che potrebbe tra qualche settimana riaccendere i fuochi.

Enrico, come hai trascorso questi due mesi?

«Mi sono rifugiato nella mia casa a Milano e ogni tanto sono riuscito a vedere i miei figli che vivono a Bergamo con la mamma. Non ho potuto vedere i miei genitori che vivono in Toscana. Mia mamma per amore mio ha imparato a usare i social e a fare le videochiamate. Quello stesso amore che ebbe quando imparò a fare qualche ricetta buona - lei che a cucinare era un disastro - perché un figlio ambizioso, io, voleva mangiare bene».

Hai cucinato per te?

«Per un cuoco stare a casa a pranzo e cena è una cosa veramente insolita. Ho scoperto che ho un tavolo e delle sedie che non solo lì solo per essere consumate dalla stanchezza di mille giornata. Prepararsi un piatto vuol dire volersi bene, il piacere di fare le cose rende un'esperienza gastronomica anche uno spaghetto. Guardo il pomodoro come si consuma nella padella e sul balcone ho una pianta di basilico e non più fiori».

Dove hai fatto la spesa?

«Nei supermercati, dove si possono trovare cose buone, e anzi scegliendole mandiamo un messaggio a chi fa gli ordini per rifornire gli scaffali. Poi ho amici generosi e solidali che mi hanno voluto consolare con un taglio di carne o con una buona bottiglia. E con i corrieri al lavoro ho potuto ordinare di tutto».

Cosa porterai nella tua cucina di questi mesi?

«Semplicemente non dobbiamo dimenticare i valori che abbiamo predicato fino all'8 marzo. Credo che l'ospite quando tornerà vorrà riallacciarsi allo stato emotivo di prima. Io non stravolgerò niente. Poi certo, questa pausa mi ha fatto vedere un mondo diverso da quello che vivo normalmente, senza la fretta, con tanti momenti di conversazione, di dialogo. Forse non ho imparato a scrivere la storia di questo momento ma ho continuamente pensato a come riprendere l'intimità con il mio mestiere».

Hai dovuto incoraggiare i tuoi collaboratori?

«Più che l'incoraggiamento credo che la parola chiave sia la rassicurazione. Anche nel nostro dialogo con le istituzioni»

A che cosa ti riferisci?

«Noi ristoratori non vogliamo minacciare la rivoluzione ma sapere di essere ascoltati per sentire di non essere soli e che gli strumenti per ricominciare, con i sacrifici dovuti, ce li metteremo tutti. Ci vuole solidarietà, che non vuol dire tirar fuori dei soldi ma impegnarsi a condividere le esperienze che abbiamo fatto e stiamo vivendo per generarne di nuove. Ci vuole rabbia, quella buona, non l'ira. E tanta intelligenza emotiva, io ne ho e quando incontro qualcuno che ce l'ha si genera un'empatia che mi fa venire voglia di fare le cose».

Hai fretta di ripartire?

«Non dobbiamo avere fretta di andare contro a chi ci dà delle regole, ma questo non deve farci smettere di farci ascoltare. Oggi non c'è al governo un riferimento competente per la ristorazione. Gli strumenti messi a disposizioni delle aziende non sono incoraggianti e fanno pensare che quando si riaprirà avremo da affrontare una serie di fatiche straordinarie. Bisognerebbe incoraggiare le imprese come la nostra perché se abbassiamo la qualità ci squalifichiamo da ogni mercato e da ogni attrazione turistica internazionale. La cassa integrazione meno male che c'è ma è uno strumento ingeneroso e insufficiente. I ristoratori, quando sono bravetti, hanno tra il 5 e il 15 per cento di utile lordo all'anno. Se perderanno il 60 per cento del fatturato per i prossimi sei anni andranno a pari. In Italia paghiamo contributi per i dipendenti pari ai soldi che essi ricevono. Ed è uno dei motivi per cui gli imprenditori stranieri non sono felici di investire in Italia».

Ti hai licenziato qualcuno?

«Ho tenuto tutti a bordo, non ho stravolgto la vita di nessuno».

E che cosa succederà dal 1° giugno?

«Un ipotetico scenario prevede l'apertura a giugno a Milano e Bergamo, però vogliamo essere certi che non ci siano novità. Per Venezia, la Toscana e il Monferrato vorremmo aspettare la ripresa del traffico tra le regioni, perché chi fa un briciolo di lusso si rivolge a un pubblico che non è solo quello del luogo».

Come ti immagini la prima sera?

«Il profumo del ristorante e l'adrenalina mi daranno gioia e mi faranno dimenticare la paura».

Ci saranno clienti? E che cosa cercheranno?

«Molti ospiti ci hanno scritto: voglio essere il primo a prenotare. Dobbiamo raccontare loro che il nostro ristorante è bello come prima, segue le regole ed è sano. Poi le regole gastronomiche sono quelle di prima. Se abbiamo sempre dato il massimo daremo il massimo più qualcosina. Quanto alla critica mi aspetto non clemenza ma consapevolezza. Se la performance non sarà del 100 per cento ma del 99 chiuderanno un occhio su quell'uno per cento».

Le regole condizioneranno l'esperienza?

«Non credo. Al Mudec i tavoli sono già a due metri di distanza, utilizzare i guanti è abbastanza usuale, quanto alla mascherina è già usata in Asia dagli operatori nelle lavorazioni al tavolo, al buffet o nei servizi alla lampada. Il grande problema è un altro».

Quale, Enrico?

«La liquidità. Un ristorante come il nostro, che solo in cucina ha venti persone, più la sala, il lavapiatti, l'ufficio amministrativo, si sostiene con un numero di ospiti completo, almeno un servizio e mezzo al giorno.

Produrre la qualità richiede un grosso investimento, non è mica un gioco di azzardo».

Commenti