La farsa dei 34mila espulsi: più della metà resta in Italia

Solo il 46% degli irregolari è stato davvero allontanato Rimpatriato ieri un tunisino radicalizzato in carcere

La farsa dei 34mila espulsi: più della metà resta in Italia

L'ultimo espulso del 2016, ma il condizionale è d'obbligo vista la raffica di provvedimenti successivi alla strage di Berlino, è un detenuto tunisino di 37 anni imbarcato ieri da Fiumicino su un volo diretto a Tunisi. In carcere, dove scontava una condanna per reati comuni, aveva «manifestato fondati segnali di radicalizzazione religiosa». L'ennesimo caso emerso dal cono d'ombra dei 369 detenuti monitorati come potenziali vittime del germe del fondamentalismo islamico negli istituti penitenziari.

Stessa nazionalità di Anis Amri, l'attentatore del mercatino ucciso a Milano, il tunisino «aveva assunto gli atteggiamenti del musulmano ortodosso, esercitando la sua influenza ed il suo carisma per cambiare le abitudini religiose all'interno del carcere, inducendo i compagni a praticare la preghiera nella propria cella», fa sapere il Viminale, aggiornando a 131 estremisti allontanati dall'Italia dal gennaio 2015 ad oggi (di cui 65 nel 2016) il bilancio positivo della «macchina della prevenzione». Che stride però con quello delle migliaia di stranieri che invece non hanno mai lasciato il nostro Paese nonostante fossero destinatari di provvedimenti di espulsione. Sono stati oltre 18mila solo 2015, secondo i dati riferiti dall'ex capo della Polizia Alessandro Pansa e messi nero su bianco nel rapporto sui Cie depositato a febbraio in Senato. Su 34.107 stranieri finiti nel mirino dell'allontanamento forzato, appena il 46% del totale è stato effettivamente rimpatriato (15.979): dunque, la maggioranza di questo esercito di irregolari non ha ottemperato all'ordine delle Questure. E le stime del 2016 sono ancora più fosche: parlano dell'appena 40% di espulsi sul totale dei destinatari di provvedimenti. Si tratterebbe di oltre 50mila irregolari spariti dai radar. Impossibile stimare quanti di questi siano ancora nel nostro Paese. Irreperibili, spesso anche prima che lo stesso foglio di via, che concede loro 7 giorni per andarsene, gli venga notificato. Ed ecco che i centri di identificazione ed espulsione (Cie), che dovrebbero servire come struttura temporanea prima del rimpatrio coatto, diventano una gigantesca sala d'attesa verso il nulla. Anzi, il preludio della permanenza in Italia o in Europa. Dal 1° gennaio al 20 dicembre 2015, vi sono transitati 5.242 stranieri, ma solo 2.746 sono stati rimpatriati, appena il 52% del totale. Anche l'attentatore di Berlino era passato dal Cie di Caltanissetta, dopo essere uscito dal carcere. L'ordine di espulsione nei suoi confronti non è mai sfociato nel via libera al rimpatrio da parte della Tunisia. Da qui è cominciato il suo viaggio verso il piano del terrore al mercatino. Come scrive la Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani nel suo rapporto sui Cie italiani, «la popolazione che transita in queste strutture è composta per di più da persone che provengono dal carcere». Proprio come Anis Amri. Una volta finito di scontare la pena, «chi ha ricevuto provvedimenti di espulsione amministrativi e giudiziari, viene portato nei centri per essere identificato ed espulso». Ma ecco che all'interno della struttura «il meccanismo si inceppa a causa della mancata collaborazione del paese di provenienza dello straniero». Che non fornisce entro i 60 giorni previsti il documento necessario al rientro, nonostante i vincoli degli accordi bilaterali.

Intese zoppicanti siglate solo con Egitto, Tunisia, Nigeria e Marocco. Il Dipartimento di Pubblica Sicurezza ha avviato forme di «cooperazione operativa» con i Paesi di origine dei flussi: Gambia, Costa d'Avorio, Ghana, Senegal, Bangladesh e Pakistan. Male intenzioni restano sulla carta.

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