La favola di un'Europa libera senza la difesa

Il messaggio trasmesso da Pechino non è soltanto quantitativo il numero dei mezzi, dei missili, dei soldati ma qualitativo: è il linguaggio del sacrificio

La favola di un'Europa libera senza la difesa
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Guardare una parata militare a Pechino non significa solo osservare l'ostentazione di una potenza bellica in crescita, ma cogliere i simboli e i messaggi che rivelano mutamenti profondi del paradigma globale. Le file interminabili di soldati, le armi di nuova generazione, la regia impeccabile della coreografia militare non parlano soltanto di forza. Parlano di determinazione. Di un popolo o almeno della sua élite politica pronto a sacrifici, disposto a sostenere costi e rischi pur di affermare una visione del mondo alternativa a quella euroatlantica.

È qui che la preoccupazione americana si svela in tutta la sua evidenza: non più soltanto il timore di perdere primati industriali o tecnologici, ma quello, ben più radicale, della propria solitudine.

Da anni Washington chiede all'Europa di fare la sua parte: aumentare la spesa militare, rivedere le politiche energetiche, smettere di penalizzare le grandi piattaforme digitali che restano piaccia o meno un asset strategico comune dell'Occidente. Richieste che non nascono da arroganze unilaterali, ma da una valutazione realistica dei rischi. Eppure, nella maggior parte delle capitali europee, queste sollecitazioni sono state accolte con fastidio e scetticismo, talvolta con un malcelato senso di superiorità morale, come se le preoccupazioni di Washington non ci riguardassero davvero.

La parata di Pechino, con leader internazionali seduti accanto a un presidente cinese vestito in abiti tradizionali e non occidentali, ci ricorda che quelle richieste non erano capricci, ma necessità. Necessità che oggi rischiano persino di apparire insufficienti.

Il messaggio trasmesso da Pechino non è soltanto quantitativo il numero dei mezzi, dei missili, dei soldati ma qualitativo: è il linguaggio del sacrificio. È l'idea che un popolo sia pronto a marciare, combattere, morire per affermare i propri valori. Non accadeva con tale chiarezza dai tempi della Guerra Fredda.

Di fronte a questo, l'Europa appare nuda. I nostri valori liberali libertà individuali, welfare diffuso, diritti sociali sono certamente "la parte giusta della storia". Ma la domanda che la parata cinese ci pone è un'altra: quali rischi, quali sacrifici siamo disposti a sopportare per difenderli?

Negli Stati Uniti esiste, da sempre, una cultura che esalta l'eroismo e il sacrificio per la patria. Lo si ritrova nel cinema, nella letteratura, nel racconto popolare. Basti pensare al pathos con cui Clint Eastwood conclude American Sniper. È una retorica che cementa consenso e identità.

In Europa, la scena è ben diversa. Le nostre parate militari celebrano la Protezione civile e la Croce Rossa più che le truppe d'assalto. La retorica dominante non è l'orgoglio per la forza, ma l'imbarazzo per la sua esistenza.

Questa timidezza non è casuale. È figlia di un clima culturale e politico che negli ultimi anni ha alimentato l'illusione di un continente che possa godere di molti diritti, pochi doveri e nessun sacrificio. Un'illusione comoda, e quindi molto sfruttata dai populismi nostrani. Da destra e da sinistra, il messaggio è lo stesso: difendere il welfare senza rafforzare la capacità militare, proteggere l'ambiente senza ripensare le filiere energetiche, sventolare la bandiera della sovranità senza accettare i costi dell'integrazione europea.

È un discorso seducente perché non chiede impegno, non chiede responsabilità, non chiede di guardare oltre il proprio presente. Ma è un discorso che lascia l'Europa priva degli strumenti per reggere all'urto di un mondo che si fa, ogni giorno, più competitivo e meno indulgente.

La parata di Pechino ci ricorda che l'ombrello americano potrebbe non bastare più. Che il sacrificio dei Marines non è un bene illimitato da dare per scontato. E che la certezza rassicurante di vivere in un mondo sicuro, protetto, prospero grazie ad altri, può svanire più rapidamente di quanto le nostre opinioni pubbliche siano pronte ad ammettere.

L'Europa deve decidere: continuare a raccontarsi la favola di un benessere senza costi, o iniziare a costruire una narrazione capace di sostenere i sacrifici necessari alla difesa dei propri valori. Non è solo una questione militare. È una questione antropologica, di identità.

Perché alla domanda posta dalla parata di Pechino chi è pronto a sacrificarsi per imporre la

propria visione del mondo? l'Occidente ha oggi una sola voce convinta, quella americana. E finché l'Europa continuerà a sottrarsi, resterà, di fatto, un alleato timido. O peggio, un osservatore egoista della propria decadenza.

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