«È partita la macchina del fango contro l'unico partito di opposizione, ora che i sondaggi ci danno al 18%. Non ci facciamo intimidire». Risponde al volo Giorgia Meloni alle accuse di un pentito, riportate da Repubblica, sul pagamento di 35mila euro a esponenti del clan Travali di Latina nel 2013 per l'aiuto dato per la campagna elettorale di Pasquale Maietta, eletto deputato con Fdi e poi espulso dal partito nel 2016, in seguito al coinvolgimento nell'inchiesta «Olimpia» (per cui la procura di Latina aveva chiesto alla Camera l'autorizzazione all'arresto) e ai suoi rapporti con Costantino «Cha Cha» Di Silvio, capo dell'omonimo clan. La storia, come detto, salta fuori da un verbale di interrogatorio della Dda con Agostino Riccardo, nel quale il pentito rivela di aver conosciuto la leader di Fdi attraverso Maietta che aveva chiesto alla Meloni di pagare lui e altri «ragazzi» del clan Travali che si erano occupati di affissioni e avevano aiutato a procurare voti. Il pagamento, secondo il pentito, sarebbe poi avvenuto al quartiere Eur di Roma tramite il «segretario» di Giorgia Meloni.
La storia, però, innesca polemiche. Non solo perché la Meloni smentisce subito l'episodio annunciando querele e ricordando che, prima di pubblicare la notizia, nessuno a Repubblica ha pensato bene di chiamarla per chiederle la sua versione. Ma anche perché sull'attendibilità del pentito Riccardo, e non da oggi, sembrano pendere pesanti dubbi. «In Italia spiega in un video su Facebook la presidente di Fratelli d'Italia - piacciono le persone serve e ricattabili. Noi siamo persone libere e non abbiamo paura, perché non abbiamo fatto del male. Potete prenderci tutti casa per casa, ma continueremo a dire la nostra. Ovviamente annuncio querela». Quanto al merito delle accuse, la Meloni taglia corto: «Io non faccio affari con i rom. Non do soldi in contanti in una busta di carta in un distributore di benzina (35mila euro ndr.). Non ho mai avuto un segretario maschio né una Volkswagen nera. La notizia è inventata». E la leader di Fdi ricorda inoltre che probabilmente a non credere alla notizia sono gli stessi inquirenti, perché «altrimenti mi avrebbero chiesto conto di questa notizia che mi infanga». L'attacco, poi, è tutto per il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, reo di non averla chiamata prima di rispolverare una «rivelazione su fatti di 8 anni» proprio ora che il suo è il solo partito rimasto all'opposizione. Il metodo, secondo la Meloni, ricorda il trattamento riservato dal Myanmar alla leader dell'opposizione birmana Aung San Suu Kyi, e «vedere metodi che ricordano il Myanmar non promette bene per la nostra democrazia».
Spiegazioni definite una «non risposta» dal vicepresidente dei senatori Pd Franco Mirabelli, che parla di «scenario gravissimo» e chiede alla leader di Fdi di «spiegare i rapporti con le organizzazioni criminali di Latina». Proprio da Latina, però, rimbalzano le accuse contro il pentito Riccardo, che secondo un altro pentito avrebbe stretto un patto con un ex compagno di cella concordando la versione da fornire su un omicidio di camorra avvenuto a Benevento nel 2009 per accrescere la rispettiva credibilità.
Così, a difendere la leader Fdi, arrivano il coordinatore della direzione nazionale del partito Edmondo Cirielli, che parla di «accuse false» e di «ennesimo attacco proveniente da media di regime», e la senatrice Fdi Daniela Santanché, che attacca «l'infamante articolo» di Repubblica e esprime la propria solidarietà al suo presidente, come pure l'europarlamentare Raffaele Fitto, che rispolvera la «macchina del fango».
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