G iugno 73 è una poesia di De Andre' che ho canticchiato chissà quante volte, ma il mio giugno di quell'anno è una faccia predestinata che corre inarrestabile. E taglia il filo di lana fra le urla della folla. Ricordi ancora vivissimi, come una terra che riemerge oltre il mare di nuvole che mi divide da quella sera di 46 anni fa.
Ventisette giugno 1973: rivedo papà Alfonso, nello sfolgorio della sua maturità, e mio fratello Marco, bambino come me. Andiamo all'Arena, per una serata di atletica internazionale, novità un po' esotica e quindi affascinante per esorcizzare il caldo dell'estate. A me l'atletica è sempre piaciuta e ho ben in mente la scansione delle quattro finali olimpiche dei 200 di Pietro Mennea. Anche perché le ho viste sempre dallo schermo provvidenziale del Casablanca di Viareggio, quello di Giorgio Gaber, raggiunto a piedi nudi e in costume calpestando l'asfalto bollente che separava il locale dal vicino bagno Florindo. Un poker di gare e emozioni: su tutte, la prima, Monaco 72, il bronzo strappato con le unghie e i denti dietro il leggendario Valerij Borzov, e la terza, Mosca 80, pur amputata dal boicottaggio Usa, la mia paura che potesse sbandare e deragliare in curva, quella rimonta strepitosa sul rettilineo, l'oro millimetrico, per due centesimi, su Allan Wells.
La faccia di Mennea, quella smorfia di sofferenza in mezzo ai giganti neri, mi ha accompagnato per tutta l'infanzia e l'adolescenza, ma la faccia, anzi la figura di Marcello Fiasconaro, per come la intravidi dalle tribune, non si può descrivere. I lineamenti tirati e insieme guasconi, le basette lunghe e i baffi senza paura, i capelli cespugliosi e disordinati, una catenina - almeno nella mia memoria - che sbatte sul petto poderoso. Mennea è una certezza, Mennea è disciplina, fatica, dolore su un volto essenziale se non minimalista; Fiasconaro è un meteorite irripetibile e che però prima o poi tornerà ancora, Fiasconaro è l'irrompere festoso di una potenza ancestrale che libererà, almeno quella sera, il Paese dai suoi fantasmi e dalle sue paure.
Ecco le mani che fendono l'aria, quello sguardo fiero e ingenuo, la catenina che corre pure lei di qua e di là, la folla che si fa colonna sonora. C'è un avversario, il cecoslovacco Jozef Plachy, incollato per un lungo tratto dietro di lui, ma almeno per me è tappezzeria. A un certo punto del secondo giro di quegli interminabili ottocento metri, il ragazzo nette il turbo, anche se all'epoca il vocabolo era fuori dal mio dizionario. La corsa diventa una galoppata. Lo speaker traduce con le sue concitatissime parole quello che tutti, ma proprio tutti, stanno intuendo: quegli 800 entreranno nei libri di storia dello sport.
Eccolo sul rettilineo finale: non mi sembra più un uomo, ma una macchina, forse un locomotore che sfida la sorte di un Paese anemico di campioni, il destino già scritto, addirittura la morte. Come la locomotiva lanciata verso lo schianto finale di A 30 secondi dalla fine. In quel film di culto, la musica è quella di uno struggente e funereo Vivaldi, qui sul pentagramma si scaricano le urla incredule del pubblico che vive un sogno impossibile. L'illusione dell'immortalità, pagata il prezzo di un biglietto.
Il giovane piomba sul traguardo con un tempo sbalorditivo che non ho più dimenticato: 1 minuto, 43 secondi e 7 decimi. è record del mondo. Qualcosa di imprevedibile, come gli 8,90 nel lungo di Bob Beamon a Città del Messico. Un balzo prodigioso, prima di rientrare pure lui nella routine. E nell'anonimato. Lui saltella, festeggia, forse non si rende neanche bene conto di quello che ha combinato. Aveva ragione Eugenio Montale: un imprevisto è la sola speranza. E l'imprevedibile è arrivato, come la folgore che spazza via tutto. Sugli spalti, non lontano da me, sventola una bandiera italiana. Non ho mai visto il tricolore: sono cresciuto nella città rattrappita dagli scontri e dall'ideologia: Piazza Fontana, la bomba alla Questura solo 40 giorni prima, il 17 maggio: Gianfranco Bertoli scaglia l'ordigno sciagurato sui passanti, un poliziotto con un calcio spinge la morte verso altri disgraziati. E poi l'incipit belluino e impunito di una stagione di lutti, la fine di Annarumma, in via Larga, e l'omicidio dell'agente Marino, il 12 aprile sempre del 1973, in via Bellotti. Croci. La nostra Spoon River. Contestazioni & manifestazioni. La lunga coda del Sessantotto che si insanguinerà nell'orrore del terrorismo. E invece sui gradoni napoleonici dell'Arena sono tutti in piedi che gridano: «Italia, Italia, Italia». Orgoglio e patriottismo. La patria che è morta risorge quella sera. E anch'io sento di avere un posto in una metropoli che fino a quel giorno mi era apparsa estranea.
Che spettacolo. Ci voleva Fiasconaro, il rugbista nato a Città del Capo, mezzo sudafricano e mezzo italiano, per capire cosa sia l'appartenenza. Forse è stato cosi, anche nel 48, quando Bartali ha trionfato, inatteso, al Tour, e ha sconfitto la paura spegnendo con le sue pedalate l'incendio appiccato da Antonio Pallante, lo studente di giurisprudenza che aveva sparato a Palmiro Togliatti. Forse era cosi anche quando giocava il Grande Torino e l'Italia si sentiva meno Calimero. Chissà. Una pagina di epica in una collezione di cronaca nera.
Un minuto, 43 secondi e 7 decimi, nell'era in cui i centesimi non erano ancora contemplati: quante volte ho sciorinato quei numeri con clamorosa disinvoltura rievocando quella notte. E le poche altre imprese di un'Italia all'epoca parca di successi, costretta ad arrangiarsi con quel che aveva fra le superpotenze dello sport: i tuffi di Klaus Dibiasi, gli slalom l'anno prima, a Sapporo'72, di Gustav Thoeni. Un minuto, 43 secondi e 7 decimi. Ancora oggi record italiano, il più longevo nell'atletica tricolore.
Ma la fiondata di Fiasconaro, poi azzoppato dai troppi acciacchi, è qualcosa in più: una luce nella notte, Cenerentola che per un giorno si mette le ali. Qualche settimana dopo, un amico del bagno Florindo, Lorenzo Guidi, oggi affermato professionista, mi inviò una cartolina come si usava allora in cui commentava quella performance. Ma quel che mi colpi di più fu l'indirizzo scritto a penna: Sdrucciolo del Duomo a Pescia, in provincia di Pistoia. Per me, che abitavo in una via di Milano come tanti altri, fu una scoperta sensazionale: si poteva vivere in uno Sdrucciolo, perdipiù del Duomo.
E dentro di me cominciai a fantasticare, per settimane o forse mesi, su che cosa fosse uno Sdrucciolo che intanto era una cascata fragorosa di consonanti. E nella mia fantasia una successione di gradini medievaleggianti.Cosi Marcello Fiasconaro, la meteora di un'Italietta in pantaloncini e maglietta, cambiò per sempre le coordinate della mia toponomastica.
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