Nemmeno i carri armati sovietici a Praga avevano piegato il dissenso come ha fatto ieri Matteo Renzi alla Camera sull'Italicum. Prima la minoranza Pd ha mostrato la propria inconsistenza durante i voti segreti sulle pregiudiziali di costituzionalità e poi è stata rasa al suolo dall'apposizione del voto di fiducia dinanzi al quale ogni dissidente si presenterà grosso modo in ordine sparso. A sera è giunta l'umiliazione a mezzo tv da parte del segretario-presidente del Consiglio. «La minoranza deve rispettare la posizione della maggioranza, altrimenti è anarchia», ha dichiarato Renzi al Tg1 aggiungendo che «non c'è cosa più democratica di mettere la fiducia: se la legge passa il governo va avanti, se non viene approvata il governo va a casa». Dinanzi all'armata Brancaleone che pretende di contrastarlo, l'ex sindaco di Firenze s'è pure concesso il lusso di maramaldeggiare. «Questo è il tempo del coraggio, non di chi rimane attaccato alla poltrona», ha concluso.
A una prima analisi, in effetti, si potrebbe dire che la paura di perdere il seggio sia stato il miglior deterrente contro eventuali colpi di testa. Ma la cronaca evidenzia anche una sostanziale povertà di spirito (e di mezzi) degli anti-renziani del Pd. «Si consenta il confronto, gli emendamenti sono pochi, non si ponga la fiducia», aveva esordito ieri pomeriggio il bersaniano D'Attorre con il solito tono dimesso, dando il via alla pantomima che caratterizza l'opposizione interna nel partito del premier. Poi, nel primo pomeriggio, è giunto il momento del voto sulle pregiudiziali di costituzionalità e di merito poste da Sel, Lega e M5S. Una débâcle di proporzioni superiori alle previsioni: 384 no e 209 sì al primo voto, 385-208 nel secondo sulle pregiudiziali di merito. La richiesta di sospensiva, avanzata da Forza Italia e votata a scrutinio palese, ha evidenziato qualche altra defezione chiudendosi sul 369 a 206. Insomma, finché si parla è tutto ok, quando si passa ai fatti cambia tutto.
Poco dopo, il Consiglio dei ministri si è riunito in una seduta-lampo per l'apposizione della fiducia. Immediatamente accettata dal presidente della Camera, Laura Boldrini. «Tra le materie escluse dalla facoltà del governo di porre la questione di fiducia non ci sono quelle elettorali», ha sentenziato beccandosi gli improperi dei pentastellati («Venduta!», «Collusa!»). «Contrastate le spiegazioni con gli insulti», ha replicati Boldrini, preannunciando sanzioni. Giustificate ma quantomai propizi nel giorno in cui Renzi «uomo solo al comando» celebra il proprio trionfo.
Ovviamente, da lì sono subito iniziate le tristanzuole lamentazioni della minoranza del Pd. «Questa volta non voto la fiducia», ha dichiarato il capogruppo Pd dimissionario Roberto Speranza, immediatamente seguito dall'ex segretario Pier Luigi Bersani. Seguono a ruota Enrico Letta («Le regole non si votano da soli»). «Non voto», fanno eco Stefano Fassina e Pippo Civati.
Ma queste parole lasciano presagire solo la non partecipazione al voto che abbasserà il quorum e renderà il compito ancor più agevole a Renzi. L'unica a «prendere in considerazione il voto contrario» è Rosy Bindi. Nella notte si svolgeranno le solite trattative per convincere i più «morbidi» a rientrare. Ma anche questo è un film già visto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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