Anthony Burgess, vero nome John Burgess Wilson (1917-93), ebbe un rapporto mettiamola così - molto particolare con il Giornale (quello di Montanelli, naturalmente). Diremmo di amore e odio, se soltanto i due divi della relazione - uno dei più grandi scrittori inglesi del '900 e uno dei maggiori giornalisti italiani dello stesso secolo non fossero stati per predisposizione caratteriale incapaci di amare e odiare. Erano, al massimo, soggetti a irrazionali infatuazioni e irriducibili rancori. Comunque, come qualsiasi romanzo o articolo di giornale che si rispetti, la storia va raccontata dalla fine. Eh, sì: tra il Vecchio Indro e l'irriverente scrittore diversi in tutto, identici nell'anticonformismo intellettuale finì davvero male.
Ed è un peccato, perché le cose tra i due erano cominciate come meglio non si poteva. Le grandi penne, non c'è niente da fare, si riconoscono al fiuto. E Montanelli, che magari come direttore era così così ma come penna era un maestro assoluto, quando fondò il Giornale, anno politico di scarsa grazia 1974, era alla ricerca di nomi altrettanto eleganti, indipendenti e liberi. E così prima è stranoto razziò l'argenteria di famiglia del Corriere della sera per apparecchiare al meglio il suo Giornale, poi passò alle portate straniere. E si tirò a casa intelligenze purissime tutte sull'asse liberal-conservatore - del calibro di Raymond Aron, Jean-François Revel, Gregor von Rezzori, e poi Furet, Ionesco, Fejt... L'elenco è lungo, e splendente. Ma non divaghiamo. A un certo punto, nella squadra di Montanelli arrivò anche lui, Anthony Burgess.
Inglese di Manchester, in quel momento siamo alla fine degli anni '70 è già considerato, a sessant'anni, uno dei più grandi autori di Sua Maestà. È romanziere, critico letterario, drammaturgo, traduttore, compositore, musicista, grande sperimentatore del linguaggio, frequenta cinema e televisione (nel '76 aveva collaborato assieme a Suso Cecchi d'Amico con Franco Zeffirelli alla realizzazione del kolossal tv Gesù di Nazareth). È, soprattutto, lo scrittore di Un'arancia a orologeria (A Clockwork Orange), romanzo del '62 diventato, nel '71, un film-icona di Stanley Kubrick, Arancia meccanica: un'opera così popolare e così distante dal senso del suo libro, che per Burgess diventerà persino ingombrante.
Ma c'è un'altra cosa da ricordare. Inquieto per natura e giramondo per scelta, fin dagli anni Quaranta-Cinquanta l'eccentrico artista (Burgess considerava la qualifica di scrittore riduttiva) vive e lavora in Malesia, nell'Asia sudorientale, negli Usa, nell'Europa mediterranea, a Roma. E sposa, in seconde nozze, un'italiana, Liliana Macellari, una contessa (che però faceva l'agente letterario e la traduttrice, anche dei suoi pezzi).
Ma torniamo a noi. È il 1977, e a occuparsi del contatto tra lo scapigliato Burgess e l'accigliato Montanelli, è Renato Besana, allora responsabile della casa editrice del Giornale, l'Editoriale Nuova (che poi, a partire dal 1978, con L'uomo di Nazareth, pubblicherà diversi romanzi dello scrittore). Besana si reca a Montecarlo, dove in quel periodo vive Burgess, rimane con lui due giorni, lo convince, chiude la trattativa economica, e da lì a poco lo fa incontrare con Montanelli, a Milano. Il risultato furono una serie di pezzi, scritti fra il 1978 e il 1981, per le pagine della gloriosa Terza del Giornale. Burgess, che era autore prolifico e «plurimologo», firmò tra tanti altri - articoli su Edgar Allan Poe, su Dumas, su Hemingway, Conrad, Rabelais, Beethoven, Shakespeare... La sua cultura era prodigiosa, la sua velocità di scrittura leggendaria. Burgess poteva scrivere ciò che voleva, e Montanelli gli pubblicava ogni cosa che gli mandava. Tutto filava liscio. Fino a che.
Fino a che i due finirono col litigare. E non per questioni ideologiche, politiche o etiche. No. Gli uomini, soprattutto i grandi uomini, quando decidono di spezzare un'amicizia lo fanno solo per due cose. O una donna, o i soldi. Nel nostro caso, vale la seconda. A un certo punto, primavera 1981, Anthony Burgess (uno che del resto aveva scritto: «L'arte e la morale hanno poco da dirsi») decide, senza preavviso, di passare al Corriere della sera. Apriti cielo.
Così il cosa. Il come viene raccontato nella pagina delle «Lettere al direttore» del Giornale, il 12 marzo 1981. Un lettore, che ha visto la firma di Burgess sul quotidiano di via Solferino, chiede a Montanelli come mai lo scrittore inglese è passato alla «concorrenza» (ma la mia personalissima idea è che si tratti di una lettera inventata, scritta dallo stesso Indro, per potersi vendicare a suo mondo). A questo punto, Montanelli spiega che Burgess se ne è andato «perché il Corriere lo paga tre volte più di me: un milione ad articolo, mi dicono. Il Corriere aggiunge può farlo, visto che ha alle spalle delle banche che gli hanno concesso crediti per tre-quattrocento miliardi. Io, per ottenerne uno di trenta-quaranta milioni, devo fare salti mortali». E poi, la staffilata: «Aver perso lo scrittore Burgess mi dispiace molto, aver perso l'uomo Burgess non mi dispiace affatto. In una pattuglia come la nostra, per i mercenari non c'è posto». E a maggior sfregio, Montanelli pubblica uno scambio di lettere «private». Nella prima Burgess spiega a Indro, con evidente imbarazzo, che lo aveva cercato, a Milano, nella sede del Giornale, senza trovarlo, per comunicargli la sua decisione. Nella seconda, Montanelli risponde che se lo avesse avvertito si sarebbe fatto trovare, e che era comunque disposto a rilanciare sul «prezzo». Ma ormai è tardi. E così, non resta che la zampata del vecchio leone: «Ora tu rimani per me il più grande scrittore contemporaneo. Come uomo e come amico, devo dirti che sei stato una delusione totale e che sento di non aver meritato. Ti auguro, caro Anthony, tutta la fortuna che non meriti». E in quel non, in corsivo, c'è tutto il cinismo e il genio di Montanelli.
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Post scriptum: Il 6 settembre 2000, alla «Stanza» del Corriere della sera, dove Indro Montanelli è tornato da tempo, arriva la lettera di un lettore che gli chiede conto di un suo duro giudizio su Anthony Burgess dato in un vecchio articolo del Giornale. Meravigliosa la risposta del toscanaccio: «La mia fu una scena di gelosia. Tenevo ai sulfurei articoli di Burgess come ai miei occhi, e gli avevo fatto giurare fedeltà eterna al Giornale.
La tradì quando gli offrirono il triplo di quanto potevamo offrirgli noi. Gli detti di puttana. Risposta: È stata mia moglie, italiana come te, a spiegarmi cosa sono, in Italia, la fedeltà e l'eternità». Diavolo di un Burgess. E diavolo di un Montanelli.
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