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Francesi, credeteci Anche le pizzerie meritano la «stella»

Ce l'ha il chiosco di noodle a Singapore Quando toccherà al nostro street food?

Qualche giorno fa, a Singapore, siamo stati a mangiare al mercato della Chinatown locale. Qui, in una brulicante food hall stipata di tavoli in formica e baracchini fumiganti che propongono saray e laska, ce n'è uno (al numero 216, perché sono tutti numerati e ce ne sono tanti davvero) dove la fila è un po' più lunga. Quasi quanto il nome del posto. È il Liao Fan Hong Kong Soya Sauce Chicken Rice Noodles. Si fa la fila, si ordinano un paio di piatti (la specialità è un certo pollo con riso e salsa di soia, praticamente il nome del posto) ci si accomoda nei tavoli sociali e si mangia in fretta, pagando una decina di dollari singaporeani, pari a circa 7 euro.

Ah, questo posto ha una stella Michelin. Ripetiamo. Una. Stella. Michelin. Che esibisce nel tradizionale quadrato di latta rossa che nei ristoranti paludati è esposto come la madonna pellegrina, nel punto più in vista del locale, e qui finisce invece tra un calendario con i dragoni e un ritaglio di giornale.

Ce n'è un altro sempre nella ricchissima isola a Sud della Malaysia. Si chiama Hill Street Tai Hwa Pork Noodle e smercia spaghetti cinesi a prezzi irrisori per sfamare operai, verdurai o impiegati delle banche in pausa pranzo e in maniche di camicia.

Accade anche a Bangkok, dove Jay Fai ha preso l'agognata stella per la sua omelette alla polpa di granchio per a centinaia si mettono in fila.

Anche a New York per molti anni una stella Michelin andò a una hamburgeria, The Spotted Pig, prima che uno scandalo sessuale travolgesse il proprietario. E a Londra un pub, The Harwood Arms di Fulham, può esibire il suo bravo «macaron».

Tutto bene. Ma il fatto è che in Europa, e ancora di più in Italia, le stelle vengono assegnate soltanto a locali old style, contegnosi, eleganti, costosi. Buoni, certo, a volte ottimi, qualche volta perfino indimenticabili. Ma sempre corrispondenti allo standard stabilito una volta per tutte dai soloni della guida dell'omino fatto di pneumatici bianchi: apparecchiatura classica, locale confortevole, servizio impeccabile, ricca carta dei vini, cucina di alto livello. Bannati locali informali, casalinghi, regionali. Ancora di più pizzerie e street food.

Ma perché una pizzeria non potrebbe essere insignita dell'emblema massimo della qualità gastronomica? In fondo i curatori del volume rosso hanno sempre detto che al centro delle loro scelte c'è il piatto e la sua realizzazione. E la pizza, soprattutto in alcuni indirizzi non solo campani in cui da anni si fa ricerca sulle farine, sulla lievitazione, sulla cottura, sugli ingredienti, perfino sulle modalità di consumo, è indubbiamente un piatto di totale eccellenza mondiale. Senza dubbio gourmet.

Il locale che da anni è considerato in odor di stella stella è Pepe in Grani a Caiazzo, in provincia di Caserta: il pizzaiolo Franco Pepe, considerato da molti il migliore d'Italia, ha un'ossessiva attenzione per le lievitazioni e l'uso degli olî, possiede una carta dei vini, delle birre, delle acque, si avvale di consulenti per la scelta degli ingredienti e di una commovente cura per il cliente. Ma meritevoli di stella, se gli ispettori francesi operassero un'apertura, sarebbero anche i «veronesi» Saporè di San Martino Buon Albergo (pizzaiuolo Renato Bosco), e I Tigli di San Bonifacio (pizzaiuolo Simone Padoan), i napoletani Gino Sorbillo (quattro locali tra Napoli e Milano), Ciro Oliva (Concettina ai Tre Santi) ed Enzo Coccia (La Notizia) e il romano Gabriele Bonci.

E le trattorie? Perché anche esse devono essere ignorate dalla guida che fa opinione? Non parliamo delle «finte» osterie, quelle che si chiamano così per vezzo ma nascondono un'anima da ristorante di classe. Parliamo di vere trattorie dal mood informale, quasi familiari. Proponiamo personalmente per la stella Trippa a Milano, L'Osteria della Villetta di Palazzolo sull'Oglio (Brescia), Osteria Bottega a Bologna, Da Burde a Firenze, Da Cesare al Casaletto a Roma e Cibus a Ceglie Messapica (Brindisi).

Magari qualcuno a Parigi ci ascolta.

E sennò beviamo e mangiamo lo stesso.

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