La "fretta" di Hamas e l'ultima trattativa per Barghouti libero

Il leader la chiave per uno Stato palestinese. Con l'ok del Qatar

La "fretta" di Hamas e l'ultima trattativa per Barghouti libero
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Li vedrete liberi solo stamattina. Ieri Hamas, tornato in armi nelle strade di Gaza, proponeva però di anticiparne la liberazione di 12 ore. Così quando, nel primo pomeriggio, s'è sparsa la notizia che i 20 ostaggi israeliani ancora in vita erano già stati radunati molti hanno pensato ad un anticipazione decisa per guadagnarsi la riconoscenza di Donald Trump. In verità dietro la "captatio benevolentiae" di Hamas si nasconde una complessa trattativa legata non tanto ai tempi di consegna degli ostaggi, ma ai futuri negoziati sui 20 punti del piano Trump. Una trattativa che per Hamas, ma soprattutto per il Qatar, suo grande padrino, ha come snodo principale la figura di Marwan Barghouti.

La proposta di liberazione anticipata dei venti ostaggi era strettamente legata alla rimozione del veto israeliano sulla scarcerazione del leader di Fatah e di altri tre palestinesi (Ahmad Saadat, Ibrahim Hamed e Abbas Al-Sayyed) condannati all'ergastolo. Il punto centrale è però Barghouti. Per capire perché un alto esponente di Fatah, la fazione rivale cacciata dalla Striscia nel 2007, sia improvvisamente tanto prezioso per Hamas bisogna tornare alla seconda intifada. A quei tempi Barghouti, capo dei Tanzim, il braccio armato di Fatah, proponeva la formazione di un governo di unità nazionale con Hamas per favorire la nascita di uno stato palestinese. Una convinzione mai rinnegata in 23 anni di carcere. Una convinzione che complice la corruzione, l'impopolarità e la fossilizzazione dell'Autorità Nazionale Palestinese guidata dal 90enne presidente Abu Mazen, gli è valsa un larghissimo sostegno popolare. Ottenendo la scarcerazione di Barghouti Hamas potrebbe dunque attribuirsi il merito di aver fatto liberare il "Mandela di Palestina". Ma otterrebbe soprattutto il ritorno su piazza di un leader pronto a riformare l'Anp e a trasformarla in una forza più ostile ad Israele e più vicina ad Hamas. Questo secondo punto è quello che più sta a cuore al padrino qatariota.

L'Emirato, abilissimo nell'usare il fallimentare raid israeliano del 9 settembre su Doha per conquistarsi il ruolo di alleato di primo piano dell'America di Trump, ha obiettivi ancor più ambiziosi, Vuole dribblare i "no" di Israele ed evitare sia il disarmo di Hamas, sia il suo sradicamento dalla Striscia. Per riuscirci punta a favorirne la transizione da forza militare (e terrorista) in forza apparentemente politica. Nei piani di Doha l'obbiettivo va raggiunto sfruttando i legami con Trump durante i negoziati per la formazione dell'autorità transitoria di Gaza e quelli, di più lungo periodo, sullo Stato Palestinese. Una transizione lunga, incerta e complessa durante la quale l'Emirato avrà bisogno dell'accondiscendenza americana per arginare i "no" israeliani e continuare a finanziare le classiche attività a sfondo sociale Hamas. Attività legate, nella migliore tradizione dell'Islam Politico e della Fratellanza Musulmana, alla costruzione di scuole, ospedali e orfanotrofi e altre opere destinate al sostegno della popolazione. Piani di lungo periodo nel quale l'alleanza con Barghouti verrebbe sfruttata per ricostruire una nuova Anp legata anch'essa a Doha. Un gioco sottile e forse poco evidente ad una Casa Bianca assai sbilanciata al momento sul versante qatariota per evidenti e ingenti interessi economici.

Assai chiaro, in compenso, ad un'intelligence israeliana consapevole che i miliardi di dollari trasferiti da Doha a Gaza tra il 2018 e il 2023 servirono a garantire non tanto il benessere della popolazione, quanto la preparazione delle stragi del 7 ottobre.

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