La fuga dei (presunti) oriundi Via dalla crisi, tutti in Italia

Da Caracas al Brasile, quasi mezzo milione cercano di ottenere un passaporto tricolore: basta un antenato

La fuga dei (presunti) oriundi Via dalla crisi, tutti in Italia

Certo, non tutti possono esibire i quarti di nobiltà di un Josè Altafini, di un Omar Sivori, o di un Angelillo, che di nome faceva Antonio. Ma tirarsela da «oriundo» italiano, nello sgangherato Venezuela del presidente bolivarian-castrista Nicolàs Maduro, oggi può fare la differenza. E se poi risulta un po' difficile provare certe discendenze, beh, i modi per aggiustare le pratiche non sono poi così complicati.

In fuga dal Sudamerica. In fuga dal Venezuela, soprattutto, dove le precarie condizioni economiche, sociali, politiche, spingono masse crescenti di sventurati a fuggire per curarsi, trovare un lavoro o anche solo partorire in un ospedale dotato perfino di carta igienica. Una volta si fuggiva verso Panama e la Colombia. Da qualche tempo è di moda l'Italia. Giacché riuscire a dimostrare, carte alla mano (vere o taroccate che siano non importa, purché siano taroccate bene) di avere un nonno, un avo, perfino un trisavolo italiano, può rivelarsi un Totocalcio, una vincita al Lotto, la svolta. Altro che migranti e ius soli. Un'altra discreta transumanza di masse umane potrebbe rovesciarsi sulle nostre coste senza salvagente al collo e lacrima sul viso, ma presentandosi sorridenti a Fiumicino o a Malpensa come italiani e italiane doc, come dimostrerà l'acquisita (nel frattempo) cittadinanza, da cui regolare passaporto. Ipotesi piuttosto remota, tuttavia, visto che il grosso dei postulanti non saranno così fessi da puntare davvero sull'Italia. Una volta agguantato il passaporto italiano, chi ha un po' di cervello punterà su Panama e Costa Rica, per restare «in zona». O sulla Florida o la California: insomma gli States, che poi sono lì a quasi -due passi. Anche se gli americani, che non sono fessi, stanno cominciando a scocciarsi di brutto, di fronte a migliaia di latinos che sventolano documenti italiani.

I figli di connazionali emigrati quelli con le carte in regola - sono quasi due milioni, dicono al ministero degli Esteri, dove le pratiche in attesa di essere ancora definite sono quasi 160mila. Poi ci sono quelle e qui si veleggia intorno alle 300mila - di coloro che alla cittadinanza italiana puntano esibendo alberi genealogici tutti da verificare. Naturalmente la spunteranno quasi tutti. «Perché la nostra legge è così ampia e tollerante ha raccontato alla Stampa il sottosegretario agli Esteri Mario Giro - che il numero complessivo degli aventi potenzialmente diritto a vedersi riconosciuta la cittadinanza italiana è di 80 milioni. Più degli abitanti odierni della Penisola».

Che dimensione abbia raggiunto il giro degli oriundi veri e presunti nessuno sa dire. All'ambasciata italiana di Caracas dicono che i residenti italiani e italo-discendenti nel Paese sono poco più di 150mila. Ma con i chiari di luna di un Paese ridotto alla canna del gas, dove nei cortei di protesta si spara ad altezza d'uomo, il numero di chi all'improvviso si ricorda di un avo di Marsala, di Trebisacce o di Termini Imerese è destinato a lievitare.

Ma non è solo all'ambasciata di Caracas o di Maracaibo che i nostri funzionari annaspano tra le carte di chi si pretende italiano. In Brasile è lo stesso, ed è anzi lì che sono state scoperte le prime agenzie di «spicciafaccende» che promettevano tempi rapidissimi per il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis. Per non dire dei sette figuri arrestati a maggio nel Siracusano, che lavoravano per «agenzie» brasiliane alle quali veicolavano documenti rilasciati da uffici anagrafici compiacenti.

L'inghippo sta lì: nel fatto che la nostra legge sullo ius sanguinis (a differenza di quella spagnola, per esempio, dove la discendenza vale solo fino al nonno) non pone alcun limite. Un bisnonno, un trisnonno emigrato in Venezuela al tempo di Garibaldi vanno benone. Ci vorrebbe un deterrente, dite voi. Ma forse c'è già.

È la spaventosa farragine, la

terrificante lentezza della nostra burocrazia. Quella delle ambasciate e dei consolati, a corto di personale, e quella dei Comuni italiani. Risultato: anni di attese. Chissà che non sia la burocrazia, per una volta, a salvarci.

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