
Oggi l'Europa si interroga su quale risposta dare alla lettera inviata dal Presidente Trump sui dazi. La linea prevalente è quella della prudenza: evitare un'escalation di tensioni. Una scelta apparentemente saggia, ma che in realtà rivela la difficoltà se non l'impossibilità di affrontare lo scontro con l'alleato americano in modo efficace, perché priva degli strumenti adeguati. È un atteggiamento che abbiamo già visto all'opera: si moltiplicano gli appelli al dialogo, alla diplomazia, come se bastasse invocare la trattativa per farla funzionare. Ma il punto è che la diplomazia presuppone che ci sia una volontà comune di trovare soluzioni. E quando uno dei due interlocutori quella volontà non la condivide, l'illusione del compromesso diventa una debolezza. Lo scontro commerciale innescato dagli Stati Uniti appare ormai qualcosa di molto più profondo del semplice riequilibrio economico. Se, per Clausewitz, la guerra era la prosecuzione della politica con altri mezzi, oggi i dazi sono il prolungamento di un conflitto tra potenze che, archiviata l'epoca della globalizzazione, mirano a ridisegnare un nuovo ordine mondiale. La prima risposta alla crisi L'Europa dovrebbe darla a sé stessa. Serve un confronto franco con l'opinione pubblica, una nuova assunzione di responsabilità da parte delle classi dirigenti. Occorre abbandonare l'ipocrisia della politica dello struzzo, che evita di guardare in faccia la realtà per paura di dover prendere misure impopolari. Tutti pronti, a parole, a difendere la sovranità europea, a invocare la forza del Vecchio Continente. Ma al momento di "partire per il fronte", la narrazione si sfilaccia. Il mondo somiglia oggi più alla fine dell'Ottocento l'epoca degli imperi, delle cannoniere che accompagnavano l'espansione commerciale che al mondo post-Guerra Fredda, dove la globalizzazione sembrava aver fatto dimenticare la logica del potere. Ma ciò che l'Europa sembra non voler vedere è la propria irrilevanza crescente. Un secolo e mezzo fa erano le flotte britanniche, francesi, tedesche e talvolta anche italiane a contendersi i continenti. Oggi, dopo un lungo processo di integrazione economica e politica, l'Europa appare un soggetto fragile nella nuova geografia globale. È stato più facile trovare un'intesa tra Stati Uniti e Cina, dopo un confronto muscolare che ha imposto il realismo ai contendenti, che non ricucire il rapporto tra Washington e Bruxelles, formalmente ancora alleati. Il vero nodo è che l'Europa per dirla con Trump non ha le carte per giocare questa pericolosa partita a poker. E non si può certo dire che fosse imprevedibile: il mondo da tempo si è avviato verso una nuova stagione di potenza, strategia e sacrifici. Ma i leader europei non sono stati in grado di negoziare questo cambiamento con i propri cittadini. Basti osservare le reazioni scomposte di molti partiti e piazze alla sola ipotesi di riarmo. I numeri sono impietosi. Il 69% dei servizi cloud è americano, oltre il 90% dei dati europei è custodito su server statunitensi.
Nel 2021, il 40% degli investimenti globali in intelligenza artificiale era americano, il 32% cinese, solo il 7% europeo. Un porto africano su tre è oggi controllato da Pechino, che vi ospita traffici commerciali e, sempre più spesso, basi militari. Senza i satelliti di Elon Musk, una parte rilevante del nostro mondo rimarrebbe cieca. L'Europa non ha accesso autonomo alle terre rare, né accordi strategici con i paesi che le producono. E mentre altrove le grandi imprese sostengono gli interessi geopolitici dei propri Stati, in Europa si continua a coltivare un rigoroso mercatismo antitrust che impedisce la nascita di colossi in grado di competere. Il braccio di ferro sui dazi, dunque, è solo un capitolo di una trasformazione ben più ampia. Non basterà aspettare che "passi la nottata", come scriveva Eduardo De Filippo.
Quella nottata non passerà mai, se l'Europa non cambia. Per restare una potenza nel mondo che si va delineando, l'Europa ha bisogno di una svolta coraggiosa, solo allora potrà sedersi al tavolo dei nuovi padroni del gioco.